The Plastic House
Tra i documentari presentati in concorso al Linea D’ombra, quello ove prevale l’immagine più che la realtà – per riprendere una categorizzazione di André Bazin, in riferimento all’epoca classica del cinema – è The Plastic House, di produzione australiana, bensì diretto da una regista di origine cambogiane, ossia Allison Chhorn.
La pellicola è (quasi) interamente dedicata – attraverso inquadrature per lo più fisse in campo medio – sulla visione ossessiva di una serra, di proprietà della famiglia della regista, ove notiamo giorno per giorno sia i cambiamenti della natura, sia le mutazioni dell’ambiente e delle stagioni.
L’autrice segue indirettamente una riflessione di Béla Balàzs negli studi sull’estetica cinematografica, sposando infatti le inquadrature fisse, così da sottolineare come lo spazio filmico ripreso dalla camera muta. Ciò cerca di limitare la discrepanza tra il tempo cinematografico e quello reale, rendendo la visione dello spettatore altamente percettiva e coinvolgente (esperienza che secondo le teorie del pensatore ungherese viene alterata e ridicolizzata, se si scelgono carrellate o long takes durante la successione temporale, conseguente al cambiamento delle ambientazioni sceniche).
Si diceva che la pellicola è un’esaltazione dell’immagine, non solo in relazione alle tecniche di regia, ma anche per una quasi totale mancanza di dialoghi, che rende The Plastic House prettamente visivo e riflessivo (anche per questioni commemorative, dato che la regista all’interno dell’opera inserisce la scomparsa dei genitori, e quindi il tema del ricambio generazionale), caratterizzando uno stile di vita contadino e rurale, nel quale lo spettatore si immerge, per captarne la routine, e la tal volte presenza furente della natura, la quale ha la forza sia di esaltare, sia di distruggere le costanti fatiche dell’uomo sui terreni.
Rimbalza perciò nei 42 minuti di documentario, anche il tema odierno dei cambiamenti climatici – che stanno mettendo a dura prova l’agricoltura in svariate zone del pianeta – dovuti agli ormai estremi inquinamenti che fuoriescono dai grandi centri metropolitani e dalla logica industriale frutto dell’era tardo-capitalistica. The Plastic House complessivamente – oltre ad essere sensibile e personale – è una narrazione sfumata e poco dichiarativa, ma allo stesso tempo sfacciata e potente, riguardo gli squilibri preoccupanti della natura nell’era contemporanea.
Un tema oggi ben analizzato dal cinema, per accrescere una sensibilizzazione sociale, ove principalmente i documentari – attraverso dei veri e propri generi – si stanno soffermando, insieme ad alcune opere di finzione: basti pensare per esempio ad una celebre dell’ultimo decennio, ossia Interstellar di Christopher Nolan, nella quale in un futuro possibile l’uomo è costretto a intraprendere viaggi nello spazio alla ricerca di una nuova casa, dato che i terreni sono così aridi, che oramai è impossibile coltivare, in primis il mais.
Ad ogni modo, il film è una raffigurazione tout court di un mondo, di un risicato spazio ben delimitato, nel quale appare la vita in tutte le sue fattezze: la nascita, lo sviluppo e la morte. Una casa plastificata tanto enorme, quanto debole, tanto fertile, quanto mortale. Seppur l’opera sia permeata dal ricordo, dall’isolamento, dall’angoscia, dalla perdita e dalla paura della distruzione, quello che filtra più di ogni altra cosa è il potere della vita, della speranza che è strettamente collegata (in quel caso) alla rinascita. Perché l’uomo – che ha il potere innato di creare l’esistenza – può sfruttare un’evoluzione anche meccanica (che sia però salvifica per gli ambienti e non oppressiva) per ispirare la fertilità del pianeta.