Fireball: Visitors from Darker Worlds
Tutto è cambiato dal 1969, quando l’Apollo 11 atterrò – dopo un viaggio odisseico – sulla Luna. Da lì si evolse un rapporto uomo – spazio, si accentuò una sensibilità sociale, basata sulla pulsione inconscia dell’umanità di provare a comprendere i segreti più intrinseci dell’universo. Pochi anni dopo infatti (nel 1973), Thomas Pynchon ne scrisse addirittura un romanzo-mondo, anche se l’Arcobaleno della gravità si sofferma sulla connessione puramente feticista, robotica, ed allo stesso tempo metafisica, tra i razzi V2 dei nazisti – che nella seconda guerra mondiale colpivano i quartieri di Londra – e lo stato di natura, ossia le vicende relazionali/sessuali del protagonista. Eppure quel romanzo – più di altri – crea una fascinazione attraverso l’immaginario letterario, verso un’assurda connessione tra l’uomo e lo spazio.
Abbraccia tale tema l’ultimo documentario del padre del nuovo cinema tedesco, ossia Werner Herzog, l’opera più attesa all’appena conclusa festa del cinema di Roma. Fireball: Visitors From Darker Worlds, è un titolo tanto esemplificativo, quanto misterioso: il documentario attraverso interviste ad esperti, viaggi in giro per il mondo, in luoghi ove sono caduti nella storia dell’umanità misteriose particelle di materia, ricerca e studio delle mutazioni delle civiltà attraverso i fenomeni spaziali, si fossilizza sul rapporto magico, controverso, sottile e profondo tra l’umanità (compresa la nascita e l’evoluzione biologica-culturale) e degli antichi detriti cosmici, ossia i meteoriti.
L’opera parte dalla teoria che i chimici/geologi definiscono “panspermia”, secondo la quale i semi della vita siano sparsi per l’universo, e che la stessa esistenza sulla terra sia nata dallo sviluppo di tali semi, quindi anche dal cratere che si forma sul suolo terrestre, dopo la caduta di un meteorite. Infatti, il regista insieme ad un collaboratore (Clive Oppenheimer) arriva nei luoghi più singolari: nei meandri della penisola dello Yucatan, per analizzare come i Maya abbiano sviluppato il loro culto per la scienza, dopo la caduta di un grosso meteorite; in un promontorio messicano, dove si sono estinti a causa di una enorme palla di fuoco varie specie di dinosauri; in India, per studiare come la religione induista creò alcuni dogmi, proprio in virtù dell’arrivo dei meteoriti; in Europa inoltre, per comprendere lo sviluppo delle civiltà indo-europee, in rapporto ai fenomeni che si sono succeduti nei secoli.
Un excursus antropologico, psicologico e sociologico, ove l’autore si pone quasi sempre come voce fuori campo dietro la camera da presa, come se si mettesse a fianco allo spettatore, accompagnandolo in un racconto didascalico, turistico e ambizioso. Poi non manca lo stile iconico del regista tedesco: continue ironie sull’utilizzo della macchina da presa nel cinema; rotture dei più classici canoni del decoupage; inquadrature fisse sui volti, sulle espressioni dei personaggi intervistati o di quelli che la camera si ritrova anche non volutamente ad inquadrare; un dialogo diretto e senza filtri con lo spettatore, volto a rendere la visione attiva e partecipativa (per quello che è possibile nel cinema).
Nonostante ciò, Herzog non dimentica che oltre ad essere un amante degli studi, sia umanistici, sia scientifici, un cultore di reportage e di documentari ed un narratore, è in primis – come i grandi e controversi cineasti – un cinefilo, ossia un ossessivo ammiratore della settima arte, in tutte le fattezze estetiche. Perciò, all’interno di Fireball troviamo anche frammenti di opere cinematografiche (del genere catastrofico), tra le quali: Deep Impact (Mimi Leder, 1998) & The Lost Dinosaurs (Sid Bennett, 2012). Poiché l’autore tedesco sa come tal volte il cinema sia una forma alterata, ma anche la più simile alla realtà – per la creazione di un immaginario sociale/culturale – ergo l’arte sintetica per eccellenza (per dirla alla Sergej M. Ejzenštejn), ed inoltre, sia anche una raffigurazione tramite immagini ad hoc, in tal caso di fenomeni naturali e di eventi storiografici.
Fireball è un percorso stimolante e dinamico anche per lo spettatore, più di novanta minuti nei quali ci si creano dubbi, domande, fascinazioni di ogni tipo, si rimane coinvolti, anche se si è “ignoranti” sull’argomento, perché l’opera ha una sensibilità così forte, da ammaliare chiunque, anche la persona meno curiosa che esista. Più di novanta minuti, nei quali si ammirano la bellezza dei campi lunghi e delle panoramiche, nel mezzo di paesaggi, che sembrano quasi artistici, così da riscoprire e sottolineare l’eterna bellezza dei luoghi nei quali viviamo, le struggenti potenzialità della natura, che l’uomo deve far di tutto pur di preservare, in un’era ove la meccanicizzazione della società, sta costantemente deturpando gli ambienti naturali. Qui – ancor di più che in altre forme cinematografiche – oltre al ruolo dell’autore, il quale è letteralmente L’uomo con la macchina da presa (per riprendere il titolo di una delle opere clou del formalismo russo, di Dziga Vertov), ci siamo noi tra i protagonisti, ossia l’occhio della camera, così curioso (e addentrato in questo spazio filmico) come l’innata curiosità e ambizione dell’uomo di arrivare all’essenza delle cose, che miri ad una conoscenza più oggettiva possibile.
- Diretto da: Werner Herzog, Clive Oppenheimer
- Prodotto da: André Singer, Lucki Stipetic
- Musiche di: Ernst Reijseger
- Fotografia di: Peter Zeitlinger
- Montato da: Marco Capalbo
- Distribuito da: AppleTV+
- Casa di Produzione: Spring Films, Werner Herzog Filmproduktion, Sandbox Films
- Durata: 97 minuti
- Paese: Stati Uniti
- Lingua: Inglese