Swimming out till the sea turns blue
Presentato alla Berlinale e appena passato al New York Film Festival, l’ultimo documentario del regista cinese Jia Zhangke non è uno scontro, bensì un racconto rigoroso che descrive il delicato passaggio fra “ the old and new” (per riprendere il titolo di uno dei capitoli dell’opera), ove qui non si intende solo sulle generazioni, ma anche sui villaggi e le città, sullo stile di vita rurale e della metropoli, sul governo socialista e comunista, sull’isolazionismo e la globalizzazione.
Il regista – abile conoscitore della forma documentaristica – non si limita, anzi quasi rifiuta un’impostazione visiva prettamente dualistica (come succede tal volte nei documentari di Frederick Wiseman), tra ciò che era la vecchia vita nei villaggi, e il contesto odierno della Cina occidentalizzata, ossia quella delle grandi città, del benessere e della tecnologia.
Perché Swimming out till the sea turns blue (titolo semanticamente misterioso, almeno fino all’epilogo) è in primis una raccolta di selettive e dettagliate interviste, fatte ad alcuni personaggi (per lo più artisti e/o scrittori) che narrano il passaggio – vissuto sulla propria pelle – tra la vita di campagna e quella di città, tra la vecchia Cina e la nuova, tra un contesto politico dittatoriale e feroce, ed uno (apparentemente) democratico.
Le interviste non si rendono utili solo per una consueta narrazione didascalica sulla storia sociale e politica dal secondo dopoguerra in poi, divengono altresì una specie di seduta psicanalitica, ove gli intervistati esteriorizzano al pubblico le memorie e i traumi dal rispettivo inconscio; dato che l’infanzia tormentata, violenta, povera che hanno vissuto, ha non poche ripercussioni sulla psiche da adulti.
Zhangke inserisce la storia della Cina e quella delle ultime generazioni cinesi – spartiacque tra il ‘900 e gli Anni ‘2000 – attraverso gli occhi, le espressioni, la parola e i gesti di persone, che esponendo gli avvenimenti nel microcosmo della loro vita, possono meglio di qualsiasi libro o enciclopedia descrivere il macrocosmo, ergo i processi sociali/culturali più peculiari del paese.
I monologhi sono toccanti e coinvolgenti (anche se talvolta fin troppo lunghi, almeno per uno spettatore occidentale, che deve contestualizzare il linguaggio e la conversazione cinese, più posate e diluite), eppure essi non sono l’unico elemento all’interno del documentario: La regia si alterna fra la visione – attraverso carrellate e campi medi con una serie di stacchi – delle strade cittadine con le giovani generazioni immersi nel tubo catodico (la scatola nera, citata in Perfetti Sconosciuti) dello smartphone e delle sue funzioni; ed inquadrature in campi lunghi delle campagne e dei paesaggi collinari, ove sprazzi di popolazione ancora oggi ci dedicano il lavoro e la vita; infine, anche delle immagini degli storici villaggi, presentati al pubblico non con dei flashback, bensì mostrandone l’attuale deterioramento.
Eppure, quando tali contrapposizioni visive – insieme alle interviste – non bastano, per una raffigurazione esaustiva della storia moderna della società cinese (che il regista aveva già cominciato ad affrontare in opere precedenti), l’autore inquadra molteplici cose – ossia ogni elemento che possa avere funzione archetipica – che vengono inserite come frammenti visivi, così da comporre in toto il decoupage: statue, illustrazioni, figure, ceramiche ed altro. Tutti elementi scenografici inseriti ad hoc, per una descrizione totalizzante del contesto, come una storiografia iconografica, che segua parallelamente quella orale.
Un aspetto da sottolineare – in riferimento sia al titolo, sia alle sensazioni dello spettatore post-visione – è che la modernità non viene semplicemente criticata, i giovani e le loro mode (insieme alla onnipresente digitalizzazione della vita sociale), i cambiamenti politici ed urbani e tanto altro non sono scontati oggetti di critica, ma essi vengono anche avvalorati, per sottolineare come la Cina – nonostante pro e contro – sia migliorata in ogni aspetto, sia uscita da un nido, da un ambiente chiuso, sterile, isolato, per incunearsi in una mentalità sociale e culturale che dia benefici al prossimo. Benefici che i genitori e gli antenati potevano soltanto immaginare, sognare.
Non è un caso che l’oggetto delle interviste siano delle persone di cultura, degli autori, che a cavallo tra il vecchio e il nuovo hanno portato altra linfa alla Cina con opere letterarie e/o artistiche. Attraverso una sensibilizzazione alla cultura, alla creatività, all’immaginazione, una nazione inevitabilmente si fortifica (alla lunga) in civiltà, in umanità, in mentalità.
La cultura e gli uomini di cultura possono e hanno le potenzialità per cambiare realmente il mondo, perché l’arte tal volte è più potente di qualsiasi arma, di qualsiasi ideologia, di qualsiasi pensiero politico (non a caso le dittature totalitarie, come ci insegna la stessa storia del ‘900, hanno cercato costantemente di annullare tipi di culture e di arti, simboli della condivisione e della globalizzazione tra popoli di etnie differenti. Per l’appunto il cinema, su tale tema ci ha costruito anche dei generi, basti pensare a cult come Fahrenheit 451 di François Truffaut, fino a film attuali come Monuments Men di George Clooney).
Senza farci affascinare dall’excursus, Swimming out till the sea turns blue è un documentario di un autore coscienzioso del format e del mezzo cinematografico, egli è uno dei pilastri della moderna generazione di cineasti orientali, ed allo stesso tempo è affascinato dal passato, dalla storia, da ciò che è stato, perché dimenticare quello che ha subito e che tutt’oggi subisce ancora una nazione come la Cina, sarebbe incongruente. Il documentario come viaggio tra la temporalità, ossia tra il passato e il presente, finché il futuro – il tempo dei giovani – si riveli, luccicante come il blu del mare aperto.
- Diretto da: Jia Zhang-ke
- Prodotto da: Zhao Tao
- Fotografia di: Yu Lik-Wai
- Montato da: Kong Jing-Lei
- Casa di Produzione: XStream Pictures, Huaxia Film Distribution
- Durata: 112 minuti
- Paese: Cina
- Lingua: Mandarino