Kilowatt Festival: giovani sguardi e interventi poetici sulle nuove frontiere teatrali
Dopo l’exploit dei primi giorni con Roberto Latini, il Kilowatt Festival che si è svolto a Sansepolcro (AR) tra il 20 e il 26 luglio ha presentato durante le sue ultime giornate spettacoli che danno voce ad autori più giovani. Una scena teatrale fresca e moderna, soprattutto per quanto riguarda la danza. Confrontando i vari spettacoli presentati si nota come le scelte operate dalla direzione artistica del festival spazino tra il poetico e la danza primitiva, tribale, restando confinate ad una ricerca molto individualistica sul versante prosa.
Ne è un esempio il monologo Un onesto e parziale discorso sopra i massimi sistemi di e con Pietro Angelini. Ricco di spunti filosofici, il testo appare quasi totalmente autobiografico e presenta alcuni tratti autoreferenziali; si padroneggiano abbastanza bene rudimenti di economia e politica indagando il rapporto di quest’ultima con l’arte, il suo mondo e le sue personalità. Interessante è la metafora dell’immobilità sociale che vede il giovane attore fermo e in silenzio al centro del palco mentre un trenino elettrico gli sbuffa ripetutamente intorno correndo sulla sua pista circolare. Metafora cui però Angelini non dà seguito concreto nel discorso drammaturgico, spostandosi invece a sfogliare sul fondale un album di foto digitale ricco di aneddoti, incontri, più o meno determinanti per la carriera del giovane attore. Nonostante la scelta autobiografica lo spettacolo scorre e riprende il suo filo iniziale verso la fine, quando l’interprete si cimenta in una disco-dance che lo lascia sfiancato al suolo. È il segno di una nuova e necessaria immobilità dopo un movimento che sicuramente determina un’evoluzione.
Polvere di Collettivo Superstite, diretto da Riccardo Reina con Giulio Bellotto e Annalisa Esposito, è il racconto di un tempo indefinito nel quale un uomo e una donna restano ingabbiati da confini creati da loro stessi. Sono in attesa di qualcosa che forse non avverrà mai. Mentre aspettano, la palafitta sotto cui si riparano dal mondo esterno inizia a ondeggiare e a cigolare; dalle sue fessure cadono granelli di polvere che nel giro di poco tempo iniziano a scrosciare a fiotti. La polvere cade sui due interpreti che nel silenzio si muovono in una danza che asseconda lo sgorgare dei fasci di polvere. I due non la temono, anzi, la accolgono e lasciano che questa li trasformi, incida su di loro come a ricordare la vanità dell’esistenza attraverso giochi creati da fasci di luce che penetrano questi ruscelli infiniti di sabbia, tagliandoli insieme ai movimenti e alle immagini che l’uomo e la donna creano con i loro corpi.
Tre di ScenaMadre scritto e diretto da Marta Abate e Michelangelo Frola, con Simone Benelli, Francesco Fontana e Giulia Mattola è una vera scoperta: se a molti il racconto delle dinamiche familiari e del rapporto genitori-figli che questa compagnia composta da performer non professionisti porta in scena sembra un esercizio teatrale ben eseguito, ad altri sembra invece un esempio di ricerca teatrale e pedagogica che in un festival di livello come Kilowatt ha il merito di distinguersi superando anche altri artisti professionisti. Una madre, un padre, il figlio adolescente e una platea di sedie sparpagliate sul palco sono i soggetti scenici tra i quali si snoda la vicenda, ma soprattutto le nevrosi, le frustrazioni e i sentimenti, dell’aggregazione sociale più vecchia del mondo, la famiglia. Il conflitto generazionale è solo un pretesto per indagare la natura individuale di ciascun componente della triade. Le sedie vengono continuamente disposte in varie formazioni in maniera ossessiva fino a formare una gabbia intorno alla famiglia, ormai soffocante, il cui minimo passo falso potrebbe far crollare tutto rovinosamente. L’unica indispensabile mediazione è Amanda, un altoparlante intelligente, che come in una terapia di gruppo, ricorda che i sentimenti vanno equilibrati con le difficoltà di tutti i giorni. Nasce spontanea la riflessione sulla metafora della famiglia vista come gabbia o come nido ma in cui, tuttavia, è necessario l’intervento di un soggetto esterno, estraneo alle dinamiche, un deus ex machina (terapista o meno) in grado di rimettere a posto i pezzi (e anche le sedie).
Mentre gli altri spettacoli prediligono una ricerca (forse a tratti didascalica) Un po’ di più di e con la danzatrice Zoé Bérnabéu e il circense Lorenzo Covello è, senza mezze misure, una poesia danzata. Il tema dell’amore romantico (per approfondire, leggi l’intervista) viene spiegato attraverso due individualità che scelgono di fare un percorso insieme affrontando e gestendo gli equilibri quotidiani di una relazione. Gesti e parole, carichi di tutta la musicalità della lingua francese, accompagnano la danza della coppia che mostra tutte le sue declinazioni. Dopo gli assoli di “presentazione” fortemente individuali arrivano i momenti d’insieme, il gioco, la tenerezza, la passione, il conflitto. Ma la costante che più si evidenzia dai loro corpi è la fiducia. I giochi di peso, gli off balance, il sentire il corpo dell’altro sono tutti aspetti che raggiungono il loro apice quando ci si focalizza su un lungo tavolo di legno imbandito con frutta e caraffe d’acqua avente un unico piede centrale, il cui piano poggiato sopra oscilla come una leva, inclinandosi da un lato e dall’altro. La coppia gioca sulle inclinazioni, sfidando la gravità e ricercando un equilibrio precario. Ciò che a prima vista sembrerebbe un esercizio circense si arricchisce, invece, di un movimento poetico in cui il gesto diventa emozione ed espressività. È forse lo spettacolo più romantico del Festival, nel senso più “romanzato” del termine. Nato da una ricerca emotiva di coppia si focalizza sull’espressività del gesto corporeo ma senza disdegnare la parola, che diventa, anzi, un espediente narrativo in aggiunta al corpo, in linea con la scuola del teatrodanza tedesco.
Sorry, but I Feel Slightly Disidentified di Benjamin Kahn con Cherish Menzo è il primo capitolo di una trilogia sul corpo che traccia il ritratto di una ragazza di colore che esplora il proprio corpo attraverso i ritmi e, perfino, i costumi tribali della sua terra. La sua è una danza primitiva che segue il contatto col suolo, asseconda il ritmo cardiaco e il respiro. Pur ricordando in alcuni momenti l’idea del corpo come oggetto funzionale, la donna si mostra generalmente libera da qualsiasi giudizio morale o luogo comune: si denuda e danza, canta, trema, sussulta, facendo nascere ogni movimento dal ventre e dalla terra da cui tutto ha origine. È un ritorno alla madre-terra in opposizione alla mercificazione del corpo e ai suoi stereotipi.
Conclude la programmazione di Kilowatt Isadora Duncan di Jérôme Bel, un momento didattico che si pone come una conferenza-spettacolo con tanto di rottura della quarta parete grazie al coinvolgimento di alcuni volontari reclutati tra il pubblico. L’assistente del coreografo francese Chiara Gallerani e la danzatrice americana di matrice duncaniana Elisabeth Schwartz riescono a eludere il carattere scolastico e documentaristico della performance facendo leva sul concetto di identità tra gesto ed emozione, ossia, di movimento libero “che nasce dall’interno”. Ne deriva un momento performativo ancora una volta romantico e “poetico”, basato sull’idea democratica della danza e di cui la pionera della modern dance si fece portavoce già dal primo Novecendo, trasmettendola, attraverso i suoi insegnamenti, fino ai giorni nostri.