“«Vivi in un posto stupendo, l’Italia, e per questo tu puoi fotografare solo a colori» mi disse Pina Bausch”. Intervista a Francesco Carbone
Bim, Romaeuropa e MYmovies presentano stasera venerdì 8 maggio un evento esclusivo con l’obiettivo di contribuire all’offerta culturale durante il periodo di lockdown. Alle ore 20.30 avrà luogo in streaming su MYMOVIESLIVE un dibattito in diretta tra esperti di danza, cinema, danzatrici e coreografe, seguito dal film Pina di Wim Wenders, un vero e proprio omaggio a Pina Bausch, la grande coreografa tedesca scomparsa nel 2009, dopo il cui passaggio su questa terra i linguaggi del teatro e della danza non sono mai più stati gli stessi.
Cogliamo l’occasione per pubblicare un’intervista al fotografo Francesco Carbone che, insieme a Piero Tauro, è stato il punto di riferimento per la compagnia Tanztheater Wuppertal, avendo avuto il merito di portare negli anni Ottanta le prime foto dei suoi spettacoli alla stampa italiana.
Mentre per Piero Tauro il rapporto con la fotografia degli spettacoli di Pina Bausch è stato complesso, quasi in conflitto con il suo stile (anche se ricorda che a una sua mostra la grande coreografa lasciò un messaggio con su scritto “Mit Liebe”, “con affetto“), e così ce lo ha ricordato in una nostra intervista: “durante le prove cui assistevo, la capacità espressiva dei suoi performer era talmente forte che entrarvi dentro per rompere il percorso dalla macchina fotografica alla scena era praticamente impossibile“; per Francesco Carbone lavorare con Pina è stato quasi “naturale”, e diede l’avvio a una bellissima amicizia. Ce la racconta così.
Come nacque l’incontro con Pina Bausch?
Era il 1982. Feci una telefonata al Tanztheater Wuppertal per poter andare a fare le foto ai suoi spettacoli e portarle alla stampa italiana. La compagnia sarebbe dovuta poi venire in scena nell’86 al Teatro Argentina di Roma, e così le mie foto poterono coprire già dall’inizio dell’85 tutti i giornali. Da Wuppertal mi dissero “Le faremo avere una risposta alla fine della settimana”. Mi chiamarono quella dopo, ero allo studio: “Lei può venire su”. È iniziato in questo modo un viaggio grazie al quale io ho scoperto un mondo fantastico. Da quel giorno sono salito e sceso ogni qual volta c’era un nuovo spettacolo. Era talmente grande la gioia di quando lei mi ha scelto come fotografo italiano, che io mi sono sentito investito di una sorta di amicizia. Sono stato fulminato dall’incontro con Pina. Anche perché con lei quasi mai si parlava di lavoro o di fotografia.
E di cosa si parlava?
Di rapporti umani. Lei voleva sapere chi fossi io, che cosa avevo dentro di me, che cosa mi piaceva o non mi piaceva. Le raccontai un po’ tutta la mia storia, i miei difetti, le mie inquietudini, il mio modo di far politica, il mio essere uomo solidale per i poveri. Di tutto, insomma.
In qualche modo Lei si è occupato quasi solo ed esclusivamente di Pina Bausch in tutta la sua carriera. È così?
Sì, il 90% del mio lavoro è stato su Pina Bausch, e continua a esserlo. Perché ho un’enorme quantità di foto del suo lavoro. Ho continuato e continuerò a seguirla anche se lei non c’è più. Andrò anche alle prossime produzioni. Con il tempo cambiano i danzatori e occorre rinnovare il materiale.
Piero Tauro si è ritrovato nuovamente, a trent’anni dalla prima volta, a fare le foto di Palermo Palermo: è rimasto scioccato da come sia lo spettacolo sia il suo sguardo su quello spettacolo fossero rimasti immutati. Confrontando le foto che aveva scattato tre decenni prima vi aveva rivisto lo stesso taglio. Questo ci suggerisce che il modo di raccontare di un fotografo può diventare così legato al linguaggio della scena da mantenersi vivo sempre un certo tipo di rapporto tra l’occhio fotografico che osserva, cattura, il reale e il soggetto fotografato. Secondo Lei è un caso il fatto che si possa ritrovare lo stesso sguardo a distanza di decenni? Anche il suo è uno sguardo “fisso” oppure è “mutevole”?
Sì, mi è capitato molte volte di fare le foto agli stessi spettacoli, a distanza di tempo, andando all’estero e seguendo la compagnia nei suoi vari tour. Ho sempre visto lo spettacolo nel modo preciso, uguale, perfetto, tranne semmai per qualche piccolo cambio di danzatore oppure se c’è una difficoltà in teatro o un’intenzione diversa, ma lo spettacolo è quello, strettamente quello. A me piace inventare e cercare una diversa soluzione fotografica per poter rinnovare il taglio, perché altrimenti la fotografia che uno propone dopo un po’ di tempo è sempre la stessa. Invece il fatto importante secondo me è rinnovarsi nella proposta precisa e stupenda dei 30 anni prima, riuscire a motivarti e a dare un taglio diverso cercando di superarti anche, e di non fossilizzarti nel tuo vecchio taglio fotografico, per non ricadere nell’abitudine. Cercare, per esempio, il totale della scena, dove prima immortalavi il gesto.
Si può dire che il Suo approccio è simile all’evento stesso, uno sguardo sempre diverso anche quando si replica?
Sì, bisogna tentare di dare una sorta di vita alla fotografia. Più moderna e attuale. Meno vista con gli occhi di un fotografo di scena classico.
Chi è per Lei un fotografo di scena “classico”?
È una persona molto brava, di grande pazienza e attese. Nella fotografia bisogna metterci però sempre anche un sorriso dentro. Io non sono per i cazzotti allo stomaco. Sono tante le cose brutte nella vita che si mettono in scena che già fanno di loro una sorta di ottimo repertorio di vita cattiva. Io allora ci metto sempre gioia, la contentezza di partecipare all’evento con i danzatori.
Ha mai provato una sorta di timore, di grande senso di responsabilità quando ha iniziato a lavorare per la compagnia di Pina?
Sì, avevo un po’ di timore, ma non lo davo mai a vedere. Con la compagnia in realtà si stava come in famiglia, sono stati sempre tutti gioiosi, parlavano molte lingue, anche italiano. Cercavo sempre di mantenere una calma apparente quando parlavo con il manager, con questa grandissima coreografa e la sua assistente davanti a un caffè o a un cappuccino. Lei prendeva sempre il cappuccino. Non parlavamo però di fotografia. Parlavamo di vita. Di gioia di vivere e di essere uomini e donne, persone.
Che tipo di foto sceglieva Pina?
All’epoca mostravo le foto a Pina attraverso la proiezione di diapositive a colori. Lei sceglieva le cose più strane. Anche a lei, come a me, piacevano le foto mosse, come quella di una danzatrice che aveva un cesto in mano mentre faceva una capriola. Io non voglio fermare, come nella danza classica, tutte le posizioni giuste. Il teatro va avanti, si muove, come sui binari.
Commentava mai le Sue immagini?
Sì, mi diceva: «Tu puoi fotografare solo a colori perché sei mediterraneo. Vivi in un posto stupendo, turistico. L’Italia è meravigliosa e tu puoi fotografare solo a colori».
Qualche aneddoto?
Una volta mi ha sentito cantare un’aria d’opera e insieme agli altri iniziò a ridere contenta del mio canto. La ritengo viva, per me è come una madre. Quando arrivai, dopo che mi aveva portato a vedere per la prima volta le prove, e poi facevano le improvvisazioni nel pomeriggio, mi chiese se mi fosse bastato, io le risposi di no. Allora mi portò a casa sua a mangiare italiano, cucinò spaghetti e vongole. Una favola verissima come se fosse un sogno. Non credo che esistano in Italia degli incontri tra registi e fotografi di questo tipo. Così, al primo incontro. Pina instaurò un rapporto umano con me proprio come lo aveva instaurato con i suoi danzatori.
Qual è stato l’ultimo spettacolo della compagnia che ha fotografato?
L’ultimo spettacolo che abbiamo fotografato è stato Blaubart a gennaio. Con la mia compagna Alessandra Rosa saremmo dovuti partire il 6 marzo per fotografare I sette peccati capitali a Wuppertal, ma ovviamente a causa dell’allarme in merito alla pandemia non è stato più possibile. In questo momento di grande di difficoltà, il Tanztheater cerca di ritrovare la carica e il piacere del senso della vita, che deve continuare più forte. Io dico che la mascherina per noi è come la maschera di Pulcinella, uno se la mette e recita lo stesso. Speriamo che si possa tornare presto a Wuppertal a fotografare i prossimi spettacoli. Per ora, si sta bloccati almeno fino a giugno.
Come descriverebbe gli spettacoli di Pina?
Come una partitura musicale. Sono come lei è, mi piace usare il presente perché per me è sempre viva. Rispecchiano completamente il suo essere donna, corpo, materia, occhi, gioia di vivere, desiderio di sorridere, di essere allegra. Pina non era una musona, accoglieva tutti a braccia aperte, e se poteva dare un fiore lo dava sempre. Ogni diverbio non esisteva con lei: se c’era qualcosa che non andava lo faceva cadere subito.
Ha visto il documentario di Wim Wenders? Cosa ne pensa?
È un grande omaggio realizzato con pezzi di spettacoli. Per me che conoscevo Pina è più un film sulle impressioni che su di lei avevano i suoi danzatori. Ma è pieno di inventiva, ci sono fuori scena girati anche in posti differenti da Wuppertal. È un ottimo documentario per far conoscere Pina a chi non la conosce, per innamorarsi di lei e dei suoi spettacoli.
[Immagine di copertina: “… como el musguito en la piedra, ay si, si, si …”. Foto di Francesco Carbone. Copyright all rights are reserved]