“Difficile prevedere quale sarà la risposta del pubblico al termine delle norme sul distanziamento sociale”: intervista ai direttori artistici dell’Altrove Teatro Studio di Roma
“Altrove”. Dal latino alĭter ŭbi, in altro luogo.
Di solito per l’uomo, un luogo irreale, dove ci si immagina protagonisti di quella vita che si sarebbe voluta vivere, o che si spera di poter vivere, un giorno, dopo la fine di questo calvario che ci sta toccando espiare, rinchiusi fra le quattro mura di un piccolo appartamento, o assai peggio, di un ospedale. “Altrove” è dunque speranza, ma talvolta anche fuga dal reale. Realtà altra, metafora del desiderio del non banale. Del nuovo. Ma questo luogo alternativo, sognato e agognato, per qualcuno esiste, sulle tavole di un palcoscenico. Alcuni, questo luogo altro che si configura come realtà cui aspirare, provano a crearlo. E ci riescono, sempre che una pandemia non li costringa, come purtroppo sarà per molti, a una chiusura dei battenti definitiva.
Ottavia Bianchi e Giorgio Latini, che già nel 2012 fondano l’Associazione di promozione sociale “I Pensieri dell’Altrove”. Un’associazione che di lì a qualche anno troverà il suo spazio: uno spazio edificato alla fine degli anni ’50, a pochi metri dalla fermata Cipro; uno spazio rimasto immutato fino al 2017, quando Ottavia e Giorgio decidono di farlo diventare il loro Altrove. Uno spazio dotato di ben sei ambienti, tutti dedicati a quell’arte che entrambi amano e che li unisce: il Teatro. Obiettivo? Riallacciare il rapporto tra teatro e società civile, tra teatro, giovani e tradizione. Ottavia Bianchi e Giorgio Latini sono al secondo anno di vita dell’Altrove Teatro Studio, un luogo che unisce alla sala teatro, ai foyer e al magazzino, una scuola dotata di due utili sale prove. Li abbiamo intervistati.
Innanzitutto, come state trascorrendo la quarantena?
Un po’ come tutti cerchiamo di scandire la giornata con le piccole incombenze quotidiane che aiutano a superare il momento. Come altri artisti ed esercenti ne stiamo approfittando per scrivere il nuovo testo che debutterà durante la prossima stagione oltre a configurare il cartellone del prossimo anno e la continuazione del percorso iniziato con Le Sorellastre. Inoltre stiamo elaborando più di un’idea su forme di spettacolo alternative (ma rigorosamente dal vivo) immaginando uno scenario di riapertura parziale che possa fare da cuscinetto tra il momento presente e il definitivo ritorno alla normalità. Questo ci permetterà di dare un segno forte al territorio ma anche agli artisti vecchi e nuovi che vorranno collaborare con noi, del fatto che il Teatro, in quanto parte necessaria alla vita, possa ricominciare a vivere per dare il suo supporto alla vita della comunità, come d’altronde tutte le arti stanno facendo in questi giorni di clausura forzata.
Quali sono stati gli effetti, piccoli e grandi, di questa situazione di emergenza sulla vostra stagione in corso?
Prima di tutto il completo annullamento di tutti gli spettacoli in stagione che tra l’altro stava andando a gonfie vele e quello di tutte le attività che riguardavano lo spazio che è grande, comprende due sale prova e una sala teatro. Al suo interno si muovono e vivono molte realtà artistiche e molti gruppi di studio e di lavoro. Il danno è stato gravissimo e stiamo in tutti i modi cercando di porvi rimedio senza danneggiare eccessivamente le compagnie e le attività didattiche.
Anche così, siete giunti al secondo compleanno dell’Altrove Teatro Studio. Al di là delle vostre precedenti esperienze, di quali nuove “abilità” siete già riusciti ad impossessarvi grazie a questa giovane impresa a cui avete deciso di dedicarvi?
Un teatrante che si rispetti accresce la sua esperienza di giorno in giorno, attraverso gli incontri più disparati, non solo con i colleghi, ma anche con tutti gli operatori del settore e col pubblico. Da direttore mi viene in mente che l’occhio pian piano si abitua a riconoscere sempre più velocemente un progetto papabile da uno meno appropriato al target del teatro, così come gli artisti con una sensibilità e un’etica del lavoro affine alla tua. Certo, gli errori si fanno, l’importante è non commettere sempre gli stessi ma, paradossalmente, farne sempre di nuovi mentre ci si dibatte nel tentativo di portare la barca verso l’approdo agognato. Insomma, sarà banale, ma di imparare non si finisce mai. Tuttavia, se dobbiamo proprio parlare di abilità, ci possiamo riferire alla capacità di persistere nell’intento di risvegliare un po’ il pubblico dimostrando che non sempre, per non dire quasi mai, il “nometto” conosciuto è sinonimo di buon teatro.
Il vostro proposito è quello di dare spazio agli spettacoli e alle compagnie che, seppur meritevoli, non riescono a trovare spazio nel panorama romano e non solo. Volevate quell’eccellenza che fosse al di fuori “dei soliti giri”, potremmo dire l’eccellenza dell’Altrove: quanto si sta rivelando arduo questo compito?
La cosa più difficile non è trovare l’eccellenza che c’è, è presente, e non solo a Roma. Da tutta Italia riceviamo progetti meritevoli e interessanti. La cosa più ardua è riuscire a coinvolgere la fetta più tradizionalista di pubblico attratta solo dal nomino televisivo, dalla minestra riscaldata che sa di rassicurante ma che lascia quasi sempre poco spazio alla sorpresa e al nuovo, in termini di proposta testuale ma anche di interpreti. Per fortuna intorno alla nostra struttura gravita un folto gruppo di giovani e meno giovani più attento alla qualità delle drammaturgie proposte e alla capacità degli interpreti. Questo aspetto sta diventando sempre più il marchio di garanzia dell’Altrove per cui lo spazio è conosciuto. Da questo siamo partiti all’inizio e su questo continuiamo a scommettere.
A proposito di spettacoli, nella stagione dell’Altrove Teatro Studio ci sono anche delle vostre creature, Le Sorellastre ad esempio: Ottavia, da dove nasce l’urgenza artistica di questo testo? Ad interessarti è la difficoltà di comunicazione e l’incapacità al dialogo nei rapporti umani in generale, o il focus sul mondo familiare e femminile ha un senso altro?
Ottavia: In genere quando scrivo cerco sempre di dare voce ad un’urgenza umana, personale e profonda. Mi hanno insegnato, da attrice, a non proferire battuta se non si trova l’autentica necessità di parlare. Ancora più imperativo, a mio avviso, è l’obbligo di scrivere per parlare di un tema bruciante, un qualcosa di mai del tutto risolto, di cui si abbia un onesto bisogno di indagare. Ho scritto Le Sorellastre in un momento abbastanza cruciale della mia vita, l’ho finito di getto, in poco più di un mese. Mi piace dire, non molto educatamente, di averlo vomitato dalle viscere della mia infanzia o giù di lì. Tuttavia, non mi sono fermata alla sola mia esperienza: ho fatto interviste, non solo alle attrici, che comunque si sono messe a servizio della causa con grande generosità, ma anche a tante altre persone. Ne sono venuti fuori moltissimi spunti di riflessione e di ispirazione per la psicologia e i rapporti di forza tra queste quattro anime. Il filo rosso che si dipana tra tutte le confidenze che mi sono state fatte è che la casa natale non è sempre un bel posto dove crescere e imparare le cose del mondo e di questo, per sopravvivere, si può ridere attraverso il meraviglioso genere della commedia. Non credo, tra l’altro, di aver esaurito le domande a questo proposito, tanto che Le Sorellastre potrebbe essere il primo capitolo di una trilogia a tema familiare. Per “famiglia” intendo non solo i vincoli di sangue che spesso non rendono giustizia al diritto di ognuno di noi all’amore e all’accoglienza. “Famiglia” è un qualsiasi gruppo di persone accomunate da un bisogno, un desiderio, un problema importante che le tiene legate. L’essere umano in sé è un animale che mi repelle e mi attrae allo stesso tempo proprio perché, nonostante secoli di evoluzione, non ha imparato ancora le regole del vivere. La società cambia, l’uomo no. Le pareti di una stanza chiusa, come chiuso e segreto può essere lo spazio intimo della famiglia, sono il ring ideale, a mio avviso, per smascherare il mito dell’evoluzione umana.
Giorgio, in che modo sei riuscito ad entrare nel testo e come hai lavorato sulla regia? Immagino la vicinanza di Ottavia sia stata indispensabile… mi sbaglio?
Giorgio: Avere accanto l’autore del testo che stai dirigendo riesce sempre a darti una marcia in più, soprattutto se l’autore ha l’intelligenza di aiutarti a capire alcuni passaggi chiave delle sua creazione senza cercare però di interferire o imporsi in alcun modo. Fortunatamente Ottavia rientra in questa categoria di autori, perciò il suo apporto è stato fondamentale. Già dalla prima volta che ho avuto il copione in mano mi sono subito saltati agli occhi i nodi drammatici fondamentali del testo in generale, oltre che i bisogni primari dei singoli personaggi. È proprio sulla rete di rapporti incancreniti fra queste quattro sorelle che ho centrato la mia regia, cercando di aggiungere meno orpelli possibili per far uscire con la massima crudezza i caratteri delle Sorellastre. Credo che sia stato questo tipo di approccio alla tragedia individuale di ogni personaggio che poi ha fatto emergere il lato comico della vicenda.
“Beat generation” è invece un racconto a più voci di un ventennio che ha cambiato completamente i costumi della nostra società: qual è l’intenzione comunicativa che è alla base di questo spettacolo?
Giorgio: Beat generation è uno spettacolo leggero nel senso più alto del termine. Quando si parla di spettacoli leggeri spesso si pensa ad eventi teatrali (o peggio para-teatrali) che servono solo a far staccare la testa al pubblico. Al contrario, Beat generation è uno spettacolo che senza farlo pesare allo spettatore infonde nella sua testa non solo tanti aneddoti e curiosità su quegli anni, ma anche moltissimi spunti di riflessione sulla società di ieri e di oggi. Se vi dico “non pensate agli elefanti” penserete solo agli elefanti, se vi impongo delle riflessioni o la mia opinione, avrete solo voglia di distrarvi. Ma se facendovi pensare ad altro, con un tono leggero, riesco a mettervi in testa il germe del dubbio e del libero pensiero, penso di aver fatto il mio dovere di teatrante.
Ammesso che si ritornerà, tra qualche settimana o tra qualche mese, ad avere i teatri aperti, qual è la vostra più grande preoccupazione?
La gestione economica dello spazio e la risposta del pubblico alla riapertura. La prima è un po’ un incognita perché avendo aperto solo da due anni ci trovavamo ancora in una fase di investimento che sarebbe proseguita, e nelle nostre intenzioni terminata, fino all’estate del 2021. In questo momento è difficile prevedere quali saranno le risorse disponibili per continuare su questa linea.
La seconda è una preoccupazione di tutto il teatro italiano in generale. È molto difficile prevedere quale sarà la risposta del pubblico al termine delle norme sul distanziamento sociale. Nelle nostre previsioni stiamo cercando di immaginare il peggior scenario possibile per essere pronti senza aspettare che cada qualche aiuto dall’alto, come da sempre abbiamo fatto. Aprire e far fiorire il teatro è stata una scommessa vinta da soli, col solo sostegno del pubblico e dei teatranti che hanno voluto correre con noi sin dall’inizio e che sono stati poi, insieme a noi, ripagati delle grandi fatiche sostenute. Sarebbe bello credere che le istituzioni si ricorderanno delle innumerevoli associazioni culturali che sono il tessuto connettivo del territorio. Preferiamo, tuttavia, muoverci partendo da quello che è la nostra forza: la grande determinazione e la voglia di vivere facendo Teatro per noi e per gli altri.