Daniel Isn’t Real
Nella cultura popolare, la fase dell’amico immaginario è ben radicata all’interno della crescita dei bambini, per la formazione di una loro personalità e dell’immaginazione. Chi non ha mai avuto da piccolo un amico immaginario? Con il quale giocare, confidarsi, condividere determinate emozioni e riflessioni, come se fosse un’altra parte di noi stessi; o anche per dare sfogo a momenti di apparente solitudine, che soprattutto i piccoli avvertono intorno a loro in alcuni momenti, dando quindi adito ad una spiccata verve fantasiosa.
L’horror psicologico di Adam Egypt Mortimer, dal titolo Daniel Isn’t Real (che è stato discretamente apprezzato dalla critica americana), si sviluppa proprio da tale tema dell’amico immaginario, e di conseguenza del doppio (quest’ultimo concetto è molto caro alla cinematografia da sempre, poiché venne inglobato dalla settima arte già alle sue origini, seguendo i modelli della letteratura gotica ottocentesca), poiché il piccolo protagonista Luke – dopo aver assistito ad una tragedia di quartiere – incontra il suo amico immaginario, ossia un bambino di nome Daniel.
Il film, d’altronde, esula dalla semplice convivenza malsana tra il bambino e l’amichetto (malsana perché Luke già ha una situazione familiare complicata, ossia un padre inesistente che non viene citato nella pellicola, ed una madre con problemi nevrotici e psicologici di autodistruzione), perché un salto temporale porta lo spettatore nella vita di Luke da ragazzo del college, ove si ripresenta di nuovo l’amico Daniel – anch’egli cresciuto – che lo porta verso la perdizione: all’alcool, alla droga, alla violenza verso i coetanei, ai rapporti occasionali con le ragazze, giocando oltretutto con i loro sentimenti.
Attraverso la duttilità della trama – che percorre due fasi esistenziali – si comprende (di primo acchito) come il film intraprenda svariate vie e mischi molteplici elementi narrativi, cari a diversi generi cinematografici. Lo si capisce soprattutto analizzando la figura di Daniel, il quale prima diviene un amico immaginario, poi una seconda coscienza, ossia l’altra parte dell’Io di Luke, poi addirittura un demone proveniente da un posto chiamato abisso (un sinonimo dell’inferno dantesco), che si impossessa dei corpi e della vita dei comuni mortali.
Quindi soffermandosi sulla figura del villain, appaiono tante chiavi di lettura della pellicola, la quale si smuove tra rappresentazione iconografica horror e suspense da thriller, fino a digressioni mnemoniche e sofferenza interiore da dramma contemporaneo. La regia d’altronde si adegua benissimo al mix di generi: durante le sofferenze psicologiche di Luke – estremizzate nelle sedute psicanalitiche col dottore – lo spettatore visiona tutto dal punto di vista del protagonista (ossia vede sempre Daniel, divenendo quasi come una “terza parte” di Luke, per citare e snaturare la sociologia del cinema di Edgar Morin) e mai secondo la soggettiva degli altri personaggi dello spazio filmico (quindi manca quell’altalena di regia e dei punti di vista, come invece per esempio avviene in una serie come Mr. Robot di Sam Esmail). Durante la scoperta di Daniel come demone ultraterreno, ove la regia gioca con un’iconografia che porta l’opera al surrealismo e all’esoterismo, esagerando anche in alcuni frangenti con una scenografia, che nel complesso finisce per stonare troppo con gli altri elementi del plot. Durante infine la rottura della suspense del thriller, dove ancora la regia coi primissimi piani – aiutata da un montaggio dinamico e accelerato – esalta l’ingente lavoro di make up digitalizzato approntato sui protagonisti.
Insomma ci sono tante cose da apprezzare nella contaminazione postmoderna del prodotto, la quale non è inserita lì a caso, ossia solo per una visione puramente estetica, ma è intrecciata in maniera funzionale, senza far mancare – come accennato – dei difetti strutturali, dato anche il tempo della narrazione cinematografica, che va a sfavore del prodotto e dell’evoluzione di alcune parti della sceneggiatura. Tale contaminazione avrebbe richiesto tempi narrativi più lunghi, per un’opera che fosse stata esaustiva ed armonica.
Eppure lo spettatore rimane ammaliato dall’origine di una figura come Daniel, la quale è una postilla che viene lasciata un po’ lì verso molteplici interpretazioni, ma che allo stesso tempo solidifica un assunto oggettivo e malinconico: il male nasce soprattutto da noi stessi, da una condizione familiare emotivamente distruttiva, da un trauma infantile insanabile, da un’esistenza basata sulla solitudine e sui rapporti sociali ed umani ipocriti. Daniel rappresenta quello che potremmo essere, quella parte nascosta e rimossa all’interno dell’inconscio, che d’altronde può sempre solidificarsi in noi e renderci altro, renderci quello che non vogliamo, ma pur sempre una possibilità potenziale. Quella malvagità, quell’opposto di noi stessi, un nostro interiorizzato villain, che può divenire protagonista della mente e del corpo.
Non è un caso che l’unico aspetto che smuove Luke, e che gli può dare la forza di lottare contro l’ospite indesiderato, è il sentimento, l’affezione, l’amore verso una persona, ossia Cassie (Sasha Lane), che ha notato la sua ombra, la sua oscurità, le quali invece, le hanno fatto apprezzare ancor di più la sua vera natura, la bontà repressa dalle drammatiche e tormentate esperienze.
Contraddicendo il titolo, si potrebbe dire che Daniel is real, non solamente come semplice villain cinematografico, ma anche come malvagità, come rappresentazione astratta e metafisica del male, che è d’altronde dannatamente reale e concreta. Perché solo noi, infine, abbiamo la forza di decidere chi vogliamo essere (anche se bisogna lottare contro un’esistenza personale che a volte può annichilire), perché la volontà supera ogni cosa, anche i traumi e le delusioni più radicate. Decidiamo solo noi se vogliamo essere Dottor Jekyll o Mr. Hyde, Mr. Robot o Elliot Alderson, Luke o Daniel.
- Diretto da: Adam Egypt Mortimer
- Prodotto da: Elijah Wood, Daniel Noah, Josh C. Waller, Lisa Whalen
- Scritto da: Adam Egypt Mortimer, Brian DeLeeuw
- Tratto da: "In This Way I Was Saved" di Brian DeLeeuw
- Protagonisti: Miles Robbins, Patrick Schwarznegger, Sasha Lane, Mary Stuart Masterson, Hannah Marks, Chukwudi Iwuji, Peter McRobbie
- Musiche di: Chris Clark
- Fotografia di: Lyle Vincent
- Montato da: Brett W. Bachman
- Distribuito da: Samuel Goldwyn Films (USA)
- Casa di Produzione: SpectreVision, ACE Pictures
- Data di uscita: 09/03/2019 (SXSW), 06/12/2019 (USA)
- Durata: 100 minuti
- Paese: Stati Uniti
- Lingua: Inglese