Cinema

Piccole donne + Intervista a Greta Gerwig

Franco Cappuccio

Un nuovo adattamento di Piccole donne non è tanto un evento quanto piuttosto un adorato rituale: il classico del romanzo di Louisa May Alcott del 1868 è stato adattato innumerevoli volte dalla sua pubblicazione – cinque solo per il cinema americano, e molti altri per il teatro, la televisione e la radio, facendo riscoprire ad ogni nuova generazione con l’accattivante storia delle quattro sorelle March, che vivono in signorile povertà nel Massachusetts del diciannovesimo secolo. Eppure l’ultima incarnazione cinematografica, scritta e diretta da Greta Gerwig, arriva un po’ come una cosa a sé, e del suo tempo. È un adattamento così ricco, così fedele alla sua fonte, e allo stesso tempo così decisamente personale, che la combinazione di autore e materiale sembra come se fosse un allineamento di stelle. E anche l’ascesa di una – Piccole donne è solo il secondo sforzo registico di Greta Gerwig, dopo Lady Bird del 2017, e la proietta in una categoria a parte. La Gerwig non reinventa il romanzo ma piuttosto scinde, come se lo passasse ai raggi x, il nocciolo che ha reso Piccole donne  così formativo per generazioni di donne ambiziose: è la storia di una donna che vuole scrivere, e scrive quel che fa. E la Gerwig capisce inoltre che questa donna non è solo Jo March – il tempestoso maschiaccio protagonista del romanzo – ma anche la sua autrice, Louisa May Alcott.

Il Piccole donne della Alcott era in origine stato pubblicato in due parti. La prima traccia un anno nelle vite della famiglia March – le sorelle adolescenti Meg, Jo, Amy e Beth, e la madre Marmee – nell’andare avanti con le proprie vite mentre il padre serve la nazione nella Guerra Civile; nella seconda parte, ambientata tre anni dopo, le sorelle si barcamenano tra lavoro, amore e matrimonio, e fanno i conti con la salute in peggioramento di Beth. La Gerwig riarrangia il romanzo, attingendo trasversalmente dalle due metà e riorganizzandole secondo i propositi di scrittura di Jo, trovando punti naturali di connessione narrativa (a volte anche visivamente azzeccate). Invece di iniziare con la prima riga del testo – “Natale non sembrerà più Natale senza regali!” – il film inizia con Jo (Saoirse Ronan) in piedi di fronte alla porta di una casa editrice, la sua silhouette in controluce in un raro momento di staticità. Poi entra nell’ufficio, presenta una delle sue storie all’editore per conto di un amico, e dopo la sua accettazione riluttante, viene pagata.

Il momento iniziale di esitante ambizione di Jo, e la sua trasformazione in orgoglio estasiato quando la sua storia viene accettata, si ripercuote in tutto il film della Gerwig – che diventa, attraverso l’intreccio delle linee temporali, un ritratto dei modi in cui i sogni delle ragazze cozzano contro le pressioni affrontate dalle giovani donne. Amy, la pittrice, deve fronteggiare le difficoltà di sostenersi in una professione i cui termini sono dettati dagli uomini; l’aspirante attrice Meg con il fascino (e l’aspettativa) di una vita famigliare; e Beth, la talentuosa pianista, con le crude e crudeli bizzarrie della mortalità. Le passioni di Jo vengono sottoposte alle loro maturazioni e al loro temprarsi, ma la sua storia culmina, in maniera cruciale, non semplicemente nel matrimonio o nella morte – come l’editore di Jo dice che tutte le storie di donne devono finire – ma anche in qualcos’altro: un proprio lavoro pubblicato.

Si potrebbe tirare una linea che parte dall’eroina-danzatrice di Gerwig che corre (e salta, e volteggia) per le strade di New York al ritmo di “Modern Love” di David Bowie in Frances Ha (2012), per arrivare a Jo che corre euforicamente per le strade della stessa città, in un altro tempo, nelle scene di apertura di Piccole donne. Quest’ultimo film continua perfettamente le preoccupazioni dei precedenti lavori della Gerwig, che includono la regia di Lady Bird e la co-sceneggiatura di Frances Ha e Mistress America: le intimità terribili delle sorelle; le complessità di madri e figlie; e le vite esistenziali di donne in stato di diventare, le loro realtà superate senza speranza dai propri desideri. Queste protagoniste sono tutte catturate in un ineffabile sentimento di volere – essere qualcun altro, o essere da qualche altra parte – che lentamente, attraverso e con le altre donne nelle loro vite, si acuisce in una comprensione dolceamara di chi sono e di dove appartengono. Qui, le ambientazioni modeste e i personaggi urbani e contemporanei dei precedenti film sono reimmaginati all’interno dei più grandi e dei più pesanti contorni della storia e della letteratura. Il divenire dei personaggi in Piccole donne è anche il divenire di un’era, un canone, e un tipo di femminilità.

La Gerwig porta queste idee, grandi e piccole, in conversazione fluida quando il suo film approccia uno degli espedienti più strani del romanzo della Alcott: il matrimonio di Jo – che per la maggior parte della vita aspira ad essere single per tutta la vita, come infatti lo era la Alcott – con un professore tedesco di mezza età di nome Friedrich Bhaer. È il punto della storia che sembra più inadatto ad essere adattato nel 2019, ma la Gerwig lo trasforma in una delle sezioni più originali e moderne del film. Affronta l’artificio traditore del matrimonio di Jo di petto, attraverso una scena di negoziazione tra Jo e il suo editore su questioni di paga, copyright, e le aspettative di genere nella letteratura popolare. È un momento che sovrappone agilmente il testo del romanzo, dettagli della vita e della carriera della Alcott, e meta-riflessioni sul posto della Gerwig nell’essere l’ultima regista ad adattare un libro già così estrapolato, in uno straordinario manifesto delle nostre nozioni di autenticità e possesso.

La Gerwig motiva lo scopo storico ed intellettuale del suo film nel considerare sinceramente i suoi personaggi come persone reali e le ambientazioni come luoghi reali, non artefatti o archetipi di un tempo diverso. I suoi attori abbracciano questa stessa sincerità in recitazioni sciolte, delicate, nascondendosi in ruoli che sembrano fatti su misura per loro ma che richiedono anche una certa auto-consapevolezza. La Ronan amplifica la vulnerabile incoscienza del suo personaggio in Lady Bird, traboccando di propositi e rabbia e tenerezza; Emma Watson entra nella parte della formale ed elegante Meg, vanitosa ma saggia e gentile; e Timothée Chalamet, molto più delicato ed imbarazzato dei Laurie delle versioni precedenti, è abilmente convincente come compagno affascinante ma match poco serio per Jo (Louis Garrel è in particolare il benvenuto nell’interpretare una versione più affabile e giovane del compassato Professor Bhaer). È Florence Pugh nella parte di Amy, comunque, che emerge come la vera figura di spicco: trasforma in maniera convincente il personaggio di secondo piano e leggermente superficiale in quello con le idee più chiare tra le sorelle, il suo diventare adulta favorito dalle idee di compassione della Marmee di Laura Dern e l’austero ma necessario cinismo della Zia March di Meryl Streep.

Che questi attori siano tutti delle star, in ascesa o già parte del firmamento, significa che ognuno si sente nella sua singolarità così come devono essere, come individui che trovano i loro percorsi distinti nella storia. E tuttavia l’energia del film deriva dal caloroso ed energetico recitare l’un l’altro – una collaborazione tanto di regia quanto di recitazione. Gerwig e i suoi collaboratori, il direttore della fotografia Yorick Le Saux, il compositore Alexandre Desplat, e il montatore Nick Houy, animano Piccole donne con un preciso senso del ritmo: i suoi personaggi corrono e ballano e pattinano e chiacchierano attraverso scene che si velocizzano e rallentano e ruzzolano tra loro. Pochi adattamenti di Piccole donne – e in realtà, pochi drammi in costume – si sentono così vivi, immediati, e rapidi come questo film, un lavoro straripato dal sentimento e tuttavia strutturato dalle idee.

L’occasione di parlare con Greta Gerwig di Piccole donne è stata interessante e ricca di rivelazioni e riferimenti, oltre che di spunti di riflessione sul suo film.

Ho letto Piccole Donne da bambino, e a quell’età ovviamente non ero consapevole del contesto del libro, ma una cosa che ho capito è stata: questo è quello che vuol dire essere una ragazza e voler scrivere. Molte importanti donne scrittrici – Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Ursula Le Guin – hanno detto cose simili sul libro.

Patti Smith, Elena Ferrante, J. K. Rowling.

Stephanie Meyer.

Voglio dire, è incredibilmente strano e bello che tutte queste differenti donne lo sentano allo stesso modo. Hai letto il quartetto napoletano di Elena Ferrante? Piccole donne ha avuto un ruolo anche in quello. Ho quasi fatto cadere il libro mentre lo leggevo. Ero come “Ma certo, che questo è il suo libro!”. E non è certamente perché Jo sposa il professor Bhaer. Non è per quello che l’amiamo e non è il perché le donne che volevano essere scrittrici si sono avvicinate a lei.

Non nella speranza di incontrare un professore tedesco più vecchio che gli dia dei commenti feroci.

A cui non piace quello che fanno. E fa usare a Jo la parola “thou”.

Anche tu hai fatto l’esperienza di leggerlo da giovane? È stato un libro che ti ha segnalato chi fossi nel mondo?

Non l’ho letto all’inizio. Mi è stato letto da mia madre. Per cui non ricordo di un tempo in cui non sapevo chi fosse la famiglia March. Ho sempre saputo chi fossero Jo e le sue sorelle. Era uno dei libri che avevo nella mia libreria ed ero una rilettrice, per cui l’ho letto tante e tante e tante volte. Prima di scrivere la sceneggiatura, probabilmente l’ultima volta che l’avevo letto per intero era durante l’adolescenza – 14, 15 anni. Quando l’ho letto nella trentina, è stata un’esperienza completamente differente. Ma quando lo leggi da bambina, è difficile da dire… non so se ero come Jo e per questo l’ho amata, oppure se sono diventata come Jo perché era la persona che amavo. Volevo essere una scrittrice e ho trovato poi questo personaggio? O questo personaggio mi ha fatto venire voglia di scrivere?

È interessante, perché penso che sia un tema ricorrente in molti dei tuoi lavori: persone che provano a vivere in accordo a certi ideali intellettuali o letterari o culturali, e non sapendo da dove questo desiderio provenga o se sia autentico. C’è questa battuta in Mistress America che mi piace molto, dove Tracy dice “So cos’è volere cose”.

Non guardo quel film da un po’, ma mi ricordo di quella battuta ora che me la stai dicendo.

Non so chi l’abbia scritta. Se sia stata tu o Noah.

Sembra una delle mie. [Ride]

Quella battuta mi ha colpito perché cattura quello di cui quei film, Frances Ha, Lady Bird e ora anche Piccole donne parlano: sono film sul desiderare, senza conoscere abbastanza l’oggetto del tuo desiderio.

Questa sorta di desiderio in fieri, o desiderio che non ha un oggetto, è interessante per me, perché penso sia così tanto la dimensione di cosa sia essere una donna ambiziosa. Perché, in ogni altro momento della storia umana, quell’ambizione non aveva nessun posto dove andare. E solo adesso stiamo avendo la possibilità di metterla da qualche altra parte che non sia il matrimonio. Ma anche il matrimonio, come obiettivo, come il tipo di racconto matrimoniale alla Jane Austen, è tristemente moderno… Voglio dire, davvero, l’idea che le donne non siano proprietà è nuova.

Per cui mentre realizzavo Piccole donne, l’unica cosa a cui continuavo a pensare era il finale. La cosa che tutte queste donne brillanti che sono state ispirate da Piccole Donne non amano è che lei finisce per sposare il professor Bhaer. Volevo costruire un film dove, quando Jo prende in mano quel libro alla fine e lo stringe, stai avendo la soddisfazione di qualcosa che non sapevi aver bisogno di vedere. Ma, nel momento in cui succede, pensi, “Ne avevo bisogno e non lo sapevo”. Per me, questo è il desiderio incarnato, il desiderio compiuto. Penso sia curioso che tutte queste donne amino il libro perché c’è ovviamente questa divergenza: Louisa May Alcott non si è sposata e non ha avuto figli, e Jo lo fa e smette di scrivere alla fine del libro, perché sente che quello che stava scrivendo sia cattivo.

Com’era la frase nel libro?  “Mise il coperchio al calamaio”.

Ma mentre Louisa May Alcott continuava a scrivere libri, come I ragazzi di Jo e Piccoli Uomini, Jo diventava di più come Louisa. Le ragazze erano permesse nella scuola di Jo, che apre assieme al professor Bhaer, e lei rinizia a scrivere, e scrive un libro come Piccole donne. Per cui per certi versi ho imploso il finale in quel modo. Questa differenza tra quello che fa Jo e quello che Louisa ha fatto per davvero è questo divario, e penso che ad un certo livello tutte queste donne che hanno letto Piccole donne sapevano che lei avrebbe fatto ciò, sapevano dello sdoppiamento, che lei è Jo e Jo è lei ma c’erano ancora queste differenze.

Ho approfondito un po’ Louisa May Alcott, e la sua vita… questo è un film. E tu hai fatto quel film. Alcott scrisse ad un’amica che arrivò a questo finale perché ricevette una marea di lettere da tutte queste donne che volevano che Jo si sposasse. E quello che disse suonava tipo “L’ho accoppiata in modo divertente, senza perversità”.

Si, senza cattiveria! Senza perversità!

Per cui forse tutte queste donne che sono cresciute leggendo il libro in un qualche modo sapevano che fosse un finale forzato.

Si! Nel film, ho sempre saputo di volere che il finale ti guidasse lì per poi dire, perché hai bisogno di questo? O perché vuoi questo? Qualcuno ha detto ad un certo punto “Quando il professor Bhaer si presenta a casa di Jo, è come un deus ex machina” – ed è un deus ex machina, questo è quello che è, semplicemente si presenta. Nel libro, semplicemente compare! Non ha bisogno di comparire. E inoltre, ci sono così tante cose nel libro che non ho avuto tempo di esplorare. C’è qualcuno, nella pensione di Jo, una donna con cui è amica, che non è sposata, e che è la sua migliore amica e la porta ai concerti e tutto il resto, e tu pensi, aspetta un attimo, sei tu in segreto, Louisa? Chi è questa donna?

Alcott ha detto cose che suonano come se lei fosse stata quella che oggi pensiamo come queer.

Vero. Non volevo assegnarle qualcosa che fosse troppo moderno ma… ci sono tante cose. Voglio dire, le cose che dice, “Ho metà del cervello che pensa che io sia un uomo nato in un corpo femminile”.

E “Mi sono innamorata di così tante donne nella mia vita”. Non sai bene cosa significa “innamorata” in quella frase.

Vero. Voglio dire, la passione che sentiva per le sue sorelle non era sessuale, ma sentiva una possessività e una rabbia che non potevano rimanere nella loro utopia femminile per tutta la loro vita.

E questo è quello che succede in Frances Ha.

Si, lo è. Per me, io non devo spingermi lontano – amo il mio gruppo di amiche donne, scrivo film su non voler distruggere ciò, che sia il rapporto tra sorelle o madri o amiche. Ma in ogni caso, sapevo di non poter realizzare il finale come lo ha fatto il libro – in particolare perché Louisa non voleva davvero farlo finire in quel modo, e lei pensava davvero che il vero fato di Jo dovesse essere quello di essere “una zitella scrittrice di libri per bambini”. E così ho pensato, non posso in buona fede realizzare questo finale, numero uno perché non è nelle mie corde, numero due perché non le piaceva, e se non possiamo darle un finale che le sarebbe piaciuto, 150 anni dopo,  allora che abbiamo fatto? Non abbiamo fatto nessun progresso.

La distanza tra vita e finzione è toccante per me in generale. La famiglia March, sono dei poveri signorili, mentre gli Alcott erano tristemente poveri. Hanno traslocato qualcosa come trenta volte a Boston quando era una teenager perché continuavano ad essere cacciati di casa perché non avevano abbastanza soldi. Louisa e le sue sorelle e sua madre lavorarono in maniera estenuante, e niente di tutto questo è nel libro, perché non era questo quello che l’avrebbe fatto vendere. Per cui erano tutte le cose belle delle loro vite, avvolte in qualcosa che lei si augurava di avere, e trovo quella differenza molto toccante.

Come è avvenuto questo film?

Sapevo che c’era un desiderio da parte di Amy Pascal e Sony perché l’anno scorso erano venticinque anni dalla versione del 1994, e molte giovani donne non sanno cosa sia questo libro. Questo è successo prima che dirigessi Lady Bird, ma ne avevo scritto la sceneggiatura, e ho saputo dal mio agente che le persone si stavano incontrando per parlare di Piccole donne. E ho detto, oh mi devi procurare un appuntamento. E lui ha detto, nessuno studio ti assumerà per dirigere un film quando non hai mai diretto un film. E io ero lì a dire “Questa è semantica! Sto arrivando!”. Sono arrivata lì e avevo questa idea molto chiara. Per me, era così chiaro che il libro parlava di donne, arte e denaro. Il nucleo emozionale della sorellanza e la famiglia era vero, ma c’era l’altro lato degli affari pratici, che era ugualmente emozionale. La prima riga del libro è “Natale non sembrerà più Natale senza regali. L’essere poveri è una disgrazia. Non è giusto che alcune ragazze debbano aver tanto ed altre nulla”. E io ero lì a dire “Questo libro parla di soldi”. E la vita di Louisa, come si scopre, avendo fatto le mie ricerche, era anche su quell’argomento. Molte delle battute che ho dato a Louisa – o Jo/Louisa – sono dalle lettere degli Alcott, dai suoi diari, dalla sua scrittura. Quando Jo dice nel film, “Non posso permettermi di morire di fame per i complimenti”, questa frase viene da lei. Lei prendeva decisioni economiche per tutto il tempo.

Il non romanticismo della sua scrittura, il modo mercenario in cui ci si è approcciata come un lavoro, sembra così romantico oggi. Ha venduto le sue storie per vivere.

Si, come a dire, cosa vende? E Piccole donne è andato venduto nella sua prima stampa in due settimane, e lei si è tenuta il copyright perché lo sapeva, e ha anche preso il 6,6% dei profitti, perché il suo editore non pensava che le persone l’avrebbero comprato. Penso anche che ognuno dei propositi delle ragazze non sia “adorabile” – sono grandi e seri. Tutti i capitoli di Amy in Europa in cui realizza di non essere una grande artista, sono eccezionali. Mentre mi ci immergevo, ho realizzato che il momento in cui May, che è la sorella Alcott su cui è modellato il personaggio di Amy, era in Europa, era esattamente il momento in cui vediamo gli inizi del modernismo nell’arte. Cézanne sta dipingendo, Manet sta dipingendo, e andare a Roma e a vedere i grandi maestri e pensare, no, non sarò così, e poi andare a Parigi e vedere persone che stanno iniziando ad usare la pittura come soggetto stesso, e realizzare che non stai facendo nemmeno questo… è una crisi di fede, se questo è quello che pensavi avresti dovuto fare.

Per cui avevo tutte queste idee. E la cose che ho letto che articolavano quell’idea – “donne, arte e denaro” – la migliore è Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Che tutti ricordano come [voce impostata] “Per scrivere una donna ha bisogno di una stanza tutta per sé”. Pensi a un solaio e un piccolo focolaio accogliente e tu sei avvolta nel tuo scialle e sei sola e stai scrivendo. Ma quello che dice in realtà è che una donna ha bisogno di una stanza tutta per sé e avere soldi. Perché le fu chiesto di parlare sul perché non ci sono grandi donne scrittrici, e lei ha detto che la questione non è perché non ci sono donne grandi scrittrici, la questione è: perché le donne sono sempre state povere? Perché le donne sono sempre state povere, non per solo 200 anni, ma fin dall’inizio dei tempi. E lei ha detto, “La poesia dipende dalla libertà intellettuale, e la libertà intellettuale dipende dalle cose materiali. Le donne, dunque, non hanno avuto la minima opportunità di scrivere poesia”. Come avresti potuto? Se non hai soldi, non puoi scrivere poesia.

Sento come se quell’idea sia espressa sia attraverso Louisa May Alcott e sia attraverso Jo, e volevo fare un film su quello. E l’altra cosa, quando ho iniziato a scrivere, ho iniziato guardando alle due parti del libro come due libri separati. La parte dell’adolescenza, la prima parte, va da Natale a Natale, dal 1861 al 1862 – quella fu la prima pubblicazione. E poi il secondo libro, la Alcott scherzava, si sarebbe dovuto chiamare The Wedding Marches [Le spose della famiglia March ma anche, letteralmente, le marce da sposa – NdR], perché ha dovuto farle sposare tutte. All’improvviso c’erano tutte queste cose che sentivo erano specchiarsi l’una con l’altra, la più grande delle quali era Beth e la sua malattia. Per me è la fiaba contro quello che in realtà è la vita. Nel primo libro, si ammala, poi migliora, e nel secondo libro, si ammala e poi muore. Ed è questo sdoppiamento che mi ha fatto pensare, beh, cosa succederebbe se riuscissi a posizionare queste due cosa una sopra l’altra, perché nella mia esperienza di molte storie di finzione sulle donne, c’è questo senso che tutte le avventure succedono quando sei una ragazza o un’adolescente, e quando alla fine diventi adulta, è tutto finito, e non è così interessante. E non posso permettere che questa sia la storia che raccontiamo alle giovani donne. Mi sentivo come se volessi dare indietro alle donne March quello che avevano da ragazze. Quello sentivo fosse parte del compito di questo film, perché non so dirti quante donne dicono, tipo, “Ho letto solo la prima parte”. Se la cosa che stiamo raccontando alle ragazze è che una volta diventate adulte, è tutto finito, non va bene, perché allora non c’è nient’altro rimasto da desiderare, non c’è niente a cui guardare. Non c’è audacia e ambizione e scopo una volta che sei diventata adulta, se tutto esistesse da ragazza e poi metti via le tue cose infantili, sembra semplicemente sbagliato. Per questo ho voluto posizionarmi nell’età adulta.

È anche interessante ascoltarti parlare di come sia avvenuto il film: era già fatto, e tu l’hai reso personale nei confronti di te stessa. Suona quasi come quando a Louisa May Alcott fu detto di scrivere questo libro e poi divenne un libro sulla sua vita.

Vero, le fu commissionato. Lei disse, beh, c’è un mercato per le giovani. Ma quando inizialmente lo scrisse, disse “Non penso che sia granché”, e anche il suo editore disse “Non penso sia molto buono”, e furono le sue nipoti che lo lessero e dissero “Oh, questo è grandioso”. Inoltre, Piccole donne fu pubblicato quando Louisa aveva 36 anni, e io ho 36 anni…

Un incontro cosmico!

Lo so. Ho anche fatto leggere la mia carta astrale e quella di Louisa…

E?

Voglio dire, non finiremo sposate, saremmo una terribile coppia sposata. Apparentemente abbiamo molte somiglianze, ma lei era più solitaria. Perché era avanti rispetto al suo tempo. Penso sempre che ci abbia spinte nel ventesimo secolo, in molti modi.

Hai fatto sentire questo libro molto contemporaneo scavando nella vera storia della sua pubblicazione nell’ottocento. La conversazione che Jo ha con il suo editore, alla fine del film, negoziando le royalties e il copyright, suona come cose di cui parleremmo nel 2019, su donne e autorialità e possesso.

Da quando abbiamo girato quella scena, c’è stata tutta questa storia su come Taylor Swift non possegga i master delle sue registrazioni, e ora sta ri-registrando perché vuole possederli, e io pensavo, a chi appartiene l’arte? Chi genera profitto da essa? Sentivo il bordo di quella questione e ho trovato così tanto nella storia di Louisa, e volevo vedere quello. Ma la stessa cosa mi è successa con il linguaggio: le persone mi dicono, oh, sembra così moderno.

Pensavo sembrasse più approssimativo del libro.

La maggior parte delle cose è nel libro, però, quasi parola per parola. Ho scritto delle cose extra, ma molte delle battute che colpiscono il pubblico, come Amy che dice “Voglio essere grande, o niente” – viene dal libro. Marmee che dice “Sono arrabbiata quasi ogni giorno della mia vita” – viene dal libro. Anche tutte le cose che dicono la mattina di Natale, in cui ci sono battute così famose da poterle recitare tutte a memoria, come “Possiamo fare i nostri piccoli sacrifici, e dovremmo compierli con piacere” – avevo solo un’idea di doverle dire velocemente, semplicemente buttate via come chiacchiere tra sorelle.

È nell’interpretazione.

Molto è nella velocità, che era estremamente coreografata. Non gliele ho fatte dire semplicemente veloce o farle parlare una sopra all’altra. Quando ho scritto la sceneggiatura, ho fatto mia questa tecnica che molti drammaturghi usano: hai una battuta e poi inserisci una sbarra dove la persona successiva deve iniziare a parlare.

Come se fossero dei versi.

Si. Hai questa sbarra e poi la battuta continua, ma la persona successiva ha già iniziato la sua battuta. Così ho organizzato la sceneggiatura in questo modo, e ci sono volute molte prove. Iniziavamo a provare piano e poi velocizzavamo per coreografare quando la battuta successiva doveva entrare in gioco. Facevamo le battute lentamente e poi puntavamo a qualcuno e la sua battuta partiva, e poi puntavi qualcun altro e la sua battuta sarebbe partita. Era questo passaggio. E abbiamo anche coreografato lentamente le scene di movimento attraverso le stanze. Il modo in cui le ho messe insieme era che volevo che tutto svolazzasse per tutto il tempo. Non volevo Steadicam, ma volevo solo una pista in modo che la camera potesse essere su un dolly per tutto il tempo. Ed è stata questa costruzione lenta della velocità a permetterci che quando abbiamo ottenuto quello che volevamo, abbiamo potuto fare la mattina di Natale in appena 20 minuti, correndo, ed è stato incredibile.

Come hai intuito il giusto ritmo? Sia in Lady Bird che in Piccole donne, il ritmo sembra di primaria importanza per il girato. Tutto scorre continuamente.

Non lo so. Ma ti dirò che sia con Lady Bird che con questo, il primo commento che ricevo sempre da qualcuno è “rallenta, per diamine”. Non so da dove viene la parte del ritmo, ma se non mi suona giusta, l’intera struttura crolla. Penso che un po’ venga dal teatro, perché nel cinema, puoi stabilire il ritmo dal montaggio, ma in teatro, puoi solo stabilire il ritmo attraverso il linguaggio, per cui penso di avere ancora la sensazione di volere che suoni correttamente. Lo capisco quando lo sento, e quando è sbagliato, è come se qualcuno che non conosco mi toccasse l’ombelico.

Una battuta a cui ho pensato dopo aver visto il film è quando Jo dice a Marmee, “Sono così stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto quello per cui le donne sono adatte. Sono così stanca, ma sono così sola”. Contiene al suo interno così tanto sul provare ad essere una donna che sta davanti al proprio tempo, e provare a rappresentare gli ideali femministi, ma anche lo sforzo di essere umana nel proprio tempo.

Si, è dura.

Non viene dal libro, vero?

Beh, il discorso che Jo fa viene da un altro libro scritto dalla Alcott. Credo sia Rose in fiore: “Le donne hanno cervello, così come solo cuore; ambizione e talento, così come solo bellezza. E sono così stanca delle persone che dicono che l’amore è tutto ciò per cui una donna è adatta”. Ma poi ho aggiunto “Ma sono così sola”.

Veniva dalla sua carta astrale?

[Ride] No, ho scritto una bozza della sceneggiatura prima di realizzare Lady Bird. Ma una volta che ho fatto Lady Bird, l’ho finito, montato, e portato al mondo, esattamente il giorno dopo gli Oscar ho messo le mie ricerche su Piccole donne nella macchina e ho guidato fino a questa baita nei boschi. È quasi come se per me, per essere una scrittrice-regista, devi conoscere l’intera cosa in maniera estremamente profonda. Dev’essere così reale per te che non può non esistere. Perché devi fare in modo che tutti sognino lo stesso sogno che tu stai sognando. Hai bisogno di credere nella sua realtà e, per qualche ragione, è qualcosa che faccio da sola. Così stavo procedendo attraverso le mie ricerche e l’avevo annotato dal libro, e semplicemente… ero sola, e riuscivo a sentire Saoirse dirlo nella mia mente, e poi l’ho sentita dire “Ma sono così sola”. La sentivo piagnucolare per tutto il tempo mentre lo diceva. E poi ricordo il momento sul set quando lo ha detto, e ho pensato che stavo piangendo perché aveva catturato perfettamente l’intero sentimento.

Quella battuta è anche emblematica di come fai sembrare i film molto immediati e presenti, ma ti impegni anche al suo tempo e luogo con sincerità. Penso che i film in costume a volte facciano fatica a ottenere quell’equilibrio. Ci sono stati film o libri che ti hanno aiutato a capire come approcciarti?

Avevo la mia lista di film. Quello per cui ero nervosa era che non volevo fare un film in costume che sembrasse ingessato in sé stesso. Ciò succede sempre, puoi quasi sentire quanto costoso sia il kit per illuminare. E ti senti che non ti puoi muovere o respirare. Volevo che fosse leggero sulle sue gambe senza essere caotico. Volevo che fosse come se stessi facendo una danza veloce. E parte del motivo per cui ho voluto lavorare con il mio direttore della fotografia, Yorick Le Saux, era proprio a causa di questo incredibile movimento che riusciva a ottenere dietro la camera. Senti che c’è qualcosa di irrequieto dietro la sua camera.

Sembra avere un senso del ritmo interno di ciascuna scena.

Io sono l’amore, che Le Saux ha girato, è straordinariamente splendido, per cui sapevo che non era spaventato dalla bellezza, che permetteva a sé stesso di fotografare cose che erano belle. Ma saresti sorpreso – alcuni registi, alcuni direttori della fotografia, non vogliono che sia troppo bello. Adoro la sua abilità di abbracciare la bellezza in quel modo. Inoltre, ha anche quel qualcosa che sembra possa eseguire qualcosa ed improvvisare allo stesso tempo. Come Carlos, il film di Assayas, non smette mai di muoversi. Se ha fatto Carlos e Io sono l’amore, beh, il mio film è da qualche parte nel mezzo. Sentivo che il modo per renderlo più fresco fosse di mantenerlo classico. Il modo per farlo sentire vivo è di credere davvero nel tempo. Ecco perché non volevo nulla di pesante in esso.

Ho guardato un sacco di dipinti, fotografie, fatto molte ricerche, per trovare quello che sembrasse assolutamente moderno, perché in ogni tempo che le persone vivono, sono le persone più moderne che siano mai esistite! Posso mostrarti queste splendide fotografie – non so se conosci questa fotografa britannica, Julia Margaret Cameron? Ha fotografato le donne negli anni ’60 dell’ottocento, e tu non riesci a credere a queste fotografie, sembrano quelle di persone che conosci. Questa era nel mezzo della ricerca che stavo facendo… [Scrolla il suo telefono e mi mostra il ritratto di una giovane ragazza]

Sembra una foto di Instagram!

Lo so! E sembra così arrabbiata! Guarda la sua faccia, è così seccata.

E i suoi capelli sono tutti aggrovigliati e unti.

Lei è davvero arrogante, e quando l’ho vista, ero tipo, “Lei è una ragazza! Una ragazza che conosco!”. Ci sono centinaia di altre fotografie. [Continua a scrollare] Questa è un po’ Coachella, ma guarda tutte queste ragazze con le loro corone di fiori, sono così belle. Ti sembra di conoscerle. E guarda queste ragazzine! Guarda i loro capelli scompigliati! Per cui ho pensato, okay, queste erano persone, per cui abbiamo il permesso di renderle persone. E poi ho pensato molto ai film che avevano parti in costume che in un qualche modo non sembrassero già morti. Truffaut lo fa molto bene in Le due inglesi. Non ti sembra mai di essere in un posto che non conosci. Anche Jules e Jim.

E in questi film, è tutto nel catturare un senso di movimento e di dinamismo. Il fatto che queste persone corrano, e –

Il correre…  Louisa May Alcott correva, e io continuavo ad arrivare a questo fatto durante le mie ricerche, e pensavo “Devono intendere qualcosa di diverso. Non si tratta proprio di correre”. E apparentemente intendevano proprio correre. Ci sono delle parti nel suo diario in cui diceva cose tipo “Tutto quello che sono riuscita a fare oggi è stato andare a correre e scrivere”, e io pensavo, cosa? Ma a quanto pare, metteva via le sue gonne e andava a correre nei boschi.

Che è un immagine che vediamo raramente nei film in costume più tradizionali.

Si, esatto. Altri film a cui ho guardato: Fanny & Alexander, perché è una storia di fantasmi,  e perché è così geniale. L’intera sequenza della laurea ne I cancelli del cielo, dove tutti ballano il valzer in questo cortile gigantesco, sembrano proprio dei teenagers. Ho fatto guardare a tutti tutta questa roba. I compari, il modo in cui le persone parlano sembra proprio il modo in cui la gente parla, non suona così preciso. Adele H – Una storia d’amore, sempre Truffaut. Esther Kahn, il film di Desplechin sul teatro. The Dead – Gente di Dublino, il film di John Huston, perché è sul ricatturare qualcosa che è andato via. Stranamente, Incontriamoci a St. Louis, perché amo la Minnelli ed è quest’idea di, cos’è la versione idilliaca della fanciullezza? E l’inizio di Gigi, prima che canti “Thank Heaven for the Little Girls”, la promenade francese – è su quello che abbiamo basato la scena iniziale con Laurie e Jo, stranamente. Gigi. Molti film e musical francesi.

Il modo in cui è montato, il film sembra davvero che sia fatto per la musica e il movimento.

Quando ho parlato con Alexandre Desplat – avevo molti collaboratori francesi, Yorick, Alexandre – gli ho detto che in un qualche modo, quello che vediamo in questo film è un musical senza canzoni. E ha fatto una colonna sonora meravigliosa, davvero bella, e quando finisce, quando Jo ha quello splendido sguardo sul viso quando vede il suo libro nella vetrina di un negozio, e tagliamo sul nero, ci sono queste ultime due note. Gli ho spiegato un sentimento a lui, che era: volevo ridarlo al pubblico come per dire, “E adesso, tu”. Che stai facendo, che libro stai scrivendo, che canzone stai per cantare? E lui tornò con questo piccolo finale, e lì ho pensato, wow, questo è esattamente quello che intendevo. È incredibile quanto del fare film è sulla fede. Non sapevo come sarebbe stata la musica, e lui mi ha fatto mostrargli il film senza musica.

Non riesco proprio a immaginare il film muto, per quanto sembri così integrato con la musica.

Beh, lui l’ha guardato senza musica e io sentivo come… un dolore orribile. Ma poi l’ha sentita! Questo è quello che c’è di straordinario nei compositori, loro possono sentire.

Hai dovuto ri-montare qualcosa in seguito alla musica?

Molto poco, perché ha scritto fino ai tagli che ritenevo fossero giusti. Lavorare con un compositore è come avere un indumento fatto per te – sembra splendido, non starai mai meglio di quando compri qualcosa fatta su misura per te. Ricordo quando gli ho parlato inizialmente, prima che avessi girato qualunque cosa. Lui lesse la sceneggiatura e disse “La cosa più importante da ricordare nel cinema è che il tempo si muove solo in avanti”. Per cui anche quando torni indietro, stai solo proseguendo in avanti. E ho pensato molto a questa cosa mentre giravamo, che avanza sempre.

Volevo chiederti un’altra cosa. La Alcott è cresciuta assieme a Thoreau ed Emerson e tutti questi trascendentalisti, e ha visto attorno a lei una sorta di idealismo di compromesso, queste comunità utopiche che deludevano suo padre e la sua famiglia. C’è una battuta in Frances Ha su Thoreau e Walden Pond –

Oh si, c’è! Viveva a cinque minuti da casa di mia madre.

E andava lì a comprare viveri!

Lo sai, sei la prima persona che abbia menzionato questa cosa e mi chiedevo se qualcuno l’avrebbe mai fatto, perché non so se tu sei mai stato a Concord, o a Walden Pond, ma è proprio lì. Lo fa sembrare nel libro come se fosse lontanissimo. Io andavo a piedi da Concord a Walden Pond ogni weekend. Non è tutto questo granchè. Voglio dire, adoro il trascedentalismo, adoro Ralph Waldo Emerson, il suo lavoro è incredibilmente denso ma anche affascinante e brillante, e Thoreau, anche se è un lamentoso, è brillante allo stesso modo. Ma sono interessata nei modi in cui queste cose non funzionano davvero per le donne. O le famiglie. Ogni volta che leggo Thereau parlare di come costruirà la sua capanna e farà crescere i suoi piselli e vivrà in una terra lontana, mi chiedo come, che cosa farà tua moglie? Oh no, tu non ne hai una, e non hai bambini, e questo idealismo del vivere tutt’uno con la natura in realtà lascia messo da parte la cura della famiglia.

Che è quello che è accaduto a Bronson Alcott, il padre di Louisa.

Giusto, li portò a vivere a Fruitlands, la comune vegana, dove abbiamo anche girato. È dove si trova la piccola casa gialla in cui vivono Meg e John. E abbiamo girato nella scuola di Bronson, dove ha insegnato. Ma questa sorta di cosa de “l’uomo solo con la natura” non ha senso nei termini di una famiglia, ed è qualcosa su cui ho pensato molto. E l’incredibile mancanza di comprensione di cosa richieda prendersi cura della famiglia è degna di nota per me.

Quando hai presentato Lady Bird nel 2017, in un’intervista ti facero una domanda sulla battuta del film sull’amore e l’attenzione, e tu dicesti di averla presa da Simone de Beauvoir. Quella cosa aveva incredibilmente senso. Mi ha fatto guardare il film con un occhio diverso.

Penso che quello che mi piace di essere una regista di finzione e di non dover scrivere testi accademici è che ho modo di giocare con queste idee differenti da differenti angoli. Non devo posizionarmi su una risposta. Questo è quello che ho adorato dell’andare a scuola, e che a volte mi è mancato, certamente quando stavo recitando. C’è un prurito che devo soddisfare, che posso soddisfare scrivendo e dirigendo. Questo progetto particolare è stato così soddisfacente per me in tutta la ricerca e in tutto il comprendere come farlo, trovando questi pezzi del puzzle che combaciavano – anche le piccole cose che nessuno avrebbe notato. Mentre mi chiedevo come fare per tessere la storia in un certo modo, all’improvviso mi sono resa conto che quando Meg va da Vanity Fear, la chiamano Daisy, e più tardi, lei chiama sua figlia così, perché è l’ultima volta che si è sentita libera. Non ti uccide questa cosa? Sento quel tipo di soddisfazione nelle cose che ti saltano alla mente, che avrei sentito a volte quando scrivo documenti. Ma fortunatamente, a differenza dei documenti, con i film non devo spiegare tutto in pieno. Posso solo godere della vista di un pensiero ordinato.


  • Diretto da: Greta Gerwig
  • Prodotto da: Amy Pascal, Denise Di Novi, Robin Swicord
  • Scritto da: Greta Gerwig
  • Protagonisti: Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Laura Dern, Timothée Chalamet, Meryl Streep, Tracy Letts, Bob Odenkirk, James Norton, Louis Garrel, Chris Cooper
  • Musiche di: Alexandre Desplat
  • Fotografia di: Yorick Le Saux
  • Montato da: Nick Houy
  • Distribuito da: Sony Pictures Releasing (USA), Warner Bros. Italia (Italia)
  • Casa di Produzione: Columbia Pictures, Regency Enterprises, Pascal Pictures
  • Data di uscita: 07/12/2019 (MoMA), 25/12/2019 (Stati Uniti), 09/01/2020 (Italia)
  • Durata: 134 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese
  • Budget: 40 milioni di dollari

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