#LaSceltaDiToronto: Il grande freddo, di Lawrence Kasdan
Il People’s Choice Award del Toronto International Film Festival: 10 vincitori per raccontare le scelte del pubblico nel corso dei 36 anni di storia del TIFF.
Nel 1983 il Toronto International Film Festival è appena alla sua settima edizione, ma il suo prestigio è già tale da permettere l’inaugurazione del Contemporary World Cinema, con la proiezione di prime e film già vincitori in altri concorsi provenienti da tutto il mondo. Sempre quell’anno il pubblico assegna il People’s Choice Award a Il grande freddo, che oltre al successo iniziale diventò ben presto un cult per un’intera generazione di ex contestatori politici.
Lawrence Kasdan – al secondo lungometraggio dopo Brivido Caldo (1981) – era conosciuto ai più soprattutto per aver scritto le sceneggiature degli episodi V e VI di Star Wars su commissione di George Lucas, nonché quella de I predatori dell’arca perduta nell’83. In qualità di produttore esecutivo e in virtù dell’autorevolezza acquistata con i precedenti film, Kasdan riuscì ad imporre, per Il grande freddo, un cast di attori semisconosciuti (ad eccezione di William Hurt, già protagonista di Brivido Caldo) che da lì in poi si sarebbero affermati come i nuovi volti del cinema hollywoodiano, da Glenn Close a Kevin Kline, da Jeff Goldblum a Tom Berenger.
Un gruppo di ex colleghi universitari si ritrova insieme in occasione della morte di Alex, che dopo gli studi di fisica aveva cambiato diversi lavori, per arrivare a suicidarsi senza un motivo che risulti chiaro ai suoi amici. Forse le speranze perdute, o l’insoddisfazione per non aver potuto raggiungere ciò che desiderava, come sottolinea You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones, la canzone preferita di Alex che Karen (JoBeth Williams) suona al funerale. I sette amici di Alex, all’epoca dell’università sostenitori delle lotte politiche e sociali di fine anni ’60, si riuniscono nella casa di Harold (Kline) e Sarah (Close) per qualche giorno, per restare vicini dopo la perdita del loro compagno.
Ognuno di loro è diventato qualcos’altro da quello che si aspettava: Harold ha una piccola catena di negozi dedicati al running, Sam (Berenger) è un famoso attore televisivo, Nick (Hurt) è reduce del Vietnam e fa uso di droghe, Meg (Mary Kay Place) è avvocato single che vorrebbe diventare madre; c’è chi ha visto le sue aspirazioni frustrate, come Karen, assorbita dal ruolo di moglie e madre di famiglia, o Michael (Goldblum), che ha potuto seguire la strada del giornalismo solo attraverso la cronaca d’intrattenimento.
Nessuno sembra rimpiangere davvero il passato di contestazioni, ma tutti riconoscono con freddezza e lucido disincanto che le vecchie ambizioni sono state spazzate via dai compromessi richiesti dalla “vita reale” all’indomani dell’università. Ben presto la compagnia ritrova l’armonia e le dinamiche passate, la complicità e il piacere di stare insieme a distanza di anni, dopo essersi perduti o allontanati, provando a dimenticare il dolore e l’assenza di Alex e forse a ritrovare un po’ se stessi.
Il successo de Il grande freddo è da vedersi soprattutto nell’ottica dei primi anni ’80, caratterizzati negli Stati Uniti da un incremento delle spese per la difesa del paese con Reagan, e dalle ultime battute della Guerra Fredda, a cui il titolo del film non a caso rimanda; non solo, ma il ritratto di quell’epoca dato da Kasdan e dalla co-sceneggiatrice Barbara Benedek fu rappresentativo dell’intera generazione dei baby boomers, i figli del secondo dopoguerra, che negli anni ’80 si erano irrimediabilmente risvegliati dai sogni pacifisti ed egalitari del ’68, caduti uno ad uno sotto i colpi della guerra in Vietnam, dello scandalo Watergate, del rapporto sempre più problematico con il Medio Oriente.
In termini più strettamente cinematografici, uno dei fattori determinanti per il buon esito del film fu sicuramente la colonna sonora: una collezione di classici rock e soul degli anni ’60 e ’70 che interpreta appieno il mood nostalgico o di revival che anima la storia; dalla memorabile sequenza iniziale accompagnata da I Heard It Through the Grapevine di Marvin Gaye alle chiacchierate con il sottofondo di A Wither Shade of Pale dei Procol Harum o dei successi della Motown che grazie a questo film tornarono in auge, la musica è qui strumento narrativo preminente dalla presenza forte e costante, importante forse addirittura quanto gli stessi dialoghi.
Dialoghi, appunto, che sono sempre serrati e pieni di significato anche quando inconcludenti e poco concreti, quando evitano o sviano argomenti più seri (a partire dalla morte di Alex), ma in ogni caso portatori dei caratteri dei vari protagonisti, tutti caratterizzati in tal modo da quello humour che dà il tono tutto sommato leggero del film.
E forse era proprio questo l’intento di Kasdan: quello di realizzare un film apparentemente spensierato su una riunione di amici in occasione di un evento triste, che si rivela però motivo di auto riflessione e di analisi delle proprie vite e dei rapporti reciproci. L’impossibilità di dare una risposta riguardo al suicidio di Alex è allora il diretto riflesso di un atteggiamento passivo di chi non riesce o non vuole capire che solo lui, tra tutti, non aveva accettato la “vita reale” e rinunciato alle proprie idee.
Un film di importanza cruciale per il TIFF e per tutta una cinematografia americana degli anni successivi.