Ad Astra // Focus
“If Mars had life on it, I might find my wife on it” (Se su Marte ci fosse la vita, potrei trovarci lì una moglie), cantava Brian Wilson in una canzone – e, a pensarci, questa frase non è tanto lontana dalla premessa alla base di Solaris di Tarkovsky. L’intrepido astronauta Brad Pitt di Ad Astra condivide sì qualche pensiero sparuto alla moglie che si è lasciato indietro, ma chi spera davvero di cercare nell’universo sconfinato è suo padre. Che è come dire Dio. Che è come dire il Padre. Questa dualità è al centro dell’epica spaziale di James Gray: non si sa bene se leggere il film come una ricerca religiosa o piuttosto freudiana. Il padre dell’eroe è una rappresentazione del divino, o è Dio a sua volta ad essere la figura del padre perduto? In Ad Astra, le due figure le due autorità sono indivisibili nei termini della metafora. Si tratta di un film che mira alla profondità cosmica ed esistenziale – nonostante sia comunque anche un’avventura fantascientifica ad alto budget piena d’azione con delle autovetture lunari, combattimenti a mani nude in caduta libera, e Brad Pitt in una tuta spaziale.
Come film di fantascienza, Ad Astra è meno Gravity e più gravità, sospinto verso terra da una serietà da fronte aggrottata. Il titolo viene dalla frase latina “Per aspera ad astra”, ovvero “Attraverso le asperità fino alle stelle”, e le difficoltà non mancano qui, sia per l’eroe che per lo spettatore. Questo film fortemente ambizioso, a volte con successo ma in ogni caso mesmericamente strano, sembra partire in maniera poco vicina al solitamente pragmatico regista di The Yards, Two Lovers e C’era una volta a New York – anche se qualcuno avrebbe potuto dire lo stesso per l’intreccio coraggioso dell’esplorazione nella giungla di Gray in Civiltà Perduta.
Si può vedere Ad Astra come un tentativo di far rivivere un genere arcaico, quello dell’avventura spaziale al cardiopalma in grande stile – come il film di Alfonso Cuaron, si porta con sé degli echi di Abbandonati nello spazio di John Sturges del 1969. Ma Ad Astra appartiene anche all’attuale ciclo di film cosmici a tema metafisico che enfatizzano lo spazio interiore (la psiche, ciò in cui si crede) tanto quanto quello esteriore: una collezione eterogenea di lavori d’autore al cui interno trovano spazio opere come High Life di Claire Denis, Interstellar di Christopher Nolan e il delirante ed eccessivo docu-poema di Terrence Malick Voyage of Time (una terza modalità, con cui Ad Astra si interseca, è quella più “realista” che vede il pilotare razzi soltanto come “un lavoro da cinque giorni a settimana”: First Man, lo splendido Proxima di Alice Winocour). Il fondamento della fantascienza cinematografica nella sua modalità visionaria è 2001, qui echeggiato dalla sequenza iniziale di Ad Astra, con la faccia di Pitt che si profila in primo piano come il Bambino-delle-stelle di Kubrick contro la vastità dell’universo, una tavolozza di riflessi di luce di colori assortiti – e il personaggio di Pitt in realtà diventerà proprio (metaforicamente) un bambino nel proseguire del film.
La storia, annunciano i titoli di apertura, ha luogo nel vicino futuro: “un tempo sia di speranza che di conflitto”, dove l’umanità spera di salvarsi attraverso la ricerca di vita intelligente in tutto l’universo (quale conflitto esattamente? Non lo scopriremo mai – il film è più che abbozzato nei dettagli di fondo). Pitt interpreta la parte di Roy McBride, un astronauta in carriera talmente intrepido che il suo battito non è mai stato riportato alzarsi sopra le 80 pulsazioni. Si tratta di un uomo di totale determinazione e controllo: all’inizio dichiara “Prendo solo decisioni pragmatiche… Sono focalizzato sull’essenziale ad esclusione di tutto il resto”. Avrà bisogno di tutto il suo sangue freddo per superare la straordinaria sequenza di apertura, ambientata sull’International Space Antenna – sostanzialmente una gigantesca impalcatura orbitante sopra la superfice terrestre. Si sta arrampicando sull’esterno di essa quando all’improvviso avvengono delle esplosioni e diverse persone precipitano giù verso il pianeta in basso. McBride cade per il contraccolpo, così come lo fa la camera, roteando senza controllo in aria. Si tratta di un momento strepitoso di azione senza rispiro, del tipo che non si sarebbe mai associato precedentemente a Gray, e anche splendidamente costruito in termini di sound design, a partire da quell’assordante THUMP.
Lascia noi senza fiato, ma non McBride: “Dovrei provare qualcosa”, rimugina dopo fuori campo. Enormemente cosciente di sé, è avvolto nei suoi pensieri per tutto il film: mai una tuta spaziale è stata così apertamente metaforica, significando la condizione di essere sigillati in se stessi, fluttuando attraverso la vita ma separato da essa. Quest’uomo avrebbe bisogno di una terapia, e infatti è precisamente quello che sarà la sua quest – un viaggio curativo, se ce la sentiamo di usare questa locuzione. Non è un caso che l’ultima parola del film, con Roy che manda un messaggio alla base, è “Submit” (la cui varietà di significati in inglese, sia come “Invia” che come “Sottometti”, non può essere tradotta efficacemente in italiano).
Quell’infausto THUMP, a quanto si scopre, è stato causato da una serie di tempeste elettroniche nello spazio, che hanno causato sovratensioni così grandi che minacciano di distruggere lo stesso sistema solare. I superiori di McBride gli raccontano che il fenomeno è connesso con suo padre Clifford, che ha lasciato la Terra anni prima per dirigere il Progetto Lima, un viaggio ai confini del sistema solare per scoprire altre forme di vita. La missione di Roy è di recarsi su una base su Marte e mandare un messaggio al Padre. Sarà accompagnato da un vecchio amico del padre, il Colonnello Pruitt, interpretato da Donald Sutherland. Il compito principale di Pruitt è di sorridere tristemente, come solo Sutherland sa fare, prima di lasciare improvvisamente la storia, lasciando Roy con il più breve dei consigli aforistici.
Il super-concentrato Roy si impegna di non distrarsi mai dal suo compito, ma Gray opera in maniera diversa: questa odissea episodica, che scrive con Ethan Gross, è costantemente messa da parte da eccentriche deviazioni. C’è un inseguimento a bordo di buggy sulla Luna, che sembra un assalto alla diligenza di John Ford o – tenendo da conto la differente gravità – una sequenza di Slow and Furious. C’è un incontro folle e totalmente incongruente con dei babbuini, che sembrano essere presi da un reboot in CGI di Buck Rogers. Più avanti ancora un curioso pitstop su Marte, una sequenza onirica che sembra essere presa da un altro film. Alla fine arriviamo ad un atto finale anticlimatico con McBride senior (Tommy Lee Jones), un confronto solenne che riguarda meno il nostro posto nel grande schema galattico quanto piuttosto il fatto che papà non c’era per Roy quando era bambino (anche se a volte guardavano i musical assieme. Davvero – ce lo vedete Tommy Lee Jones come un uomo a cui piacciono i musical?).
Molto del linguaggio visuale del film si basa sulla vita di tutti i giorni. Il design di Kevin Thompson è per gran parte realistico, in quella vena di fantascienza che non vuole stupirci nell’esoticismo delle costruzioni delle navicelle, ma semplicemente di farci credere nell’ingegneria funzionale: si crede che le porte delle navi e delle costruzioni spaziali si aprano e si chiudano con il minimo sforzo. C’è anche una sequenza carina alla base lunare, che assomiglia ad un aeroporto del Midwest americano (e c’è anche l’unico tocco umoristico del film: una pubblicità, che si intravede quasi subliminalmente, di Moon’s Got Talent).
Quando Ad Astra abbandona lo sguardo della realtà, può essere magnificamente strano. La sequenza su Marte è allucinatoria, fin dal momento in cui Roy è accolto dalla breve comparsa di Natasha Lyonne (“Le cose sono state fuori di testa qui” – ancora una volta, il “crazy” è intraducibile nella sfumatura di significato). La base su Marte è composta da lunghi corridoi monastici illuminati da un forte rosso claustrofobico, con squarci di oscurità che ti avvolgono quando ci passi dentro. C’è anche un passaggio polveroso infestato da un cane, che annusa tutto intorno in omaggio a Stalker, e una stanza per rilassarsi dove le pareti si increspano con immagini di uccelli, pesci, api e fiori (si può ricordare qualcosa di simile, ma più patinato, in Blade Runner 2049).
È su Marte che il comandante dell’avamposto sul pianeta (Ruth Negga) da a Roy le allarmanti informazioni riservate su suo padre. McBride senior potrebbe essere diventato pericolosamente pazzo durante il suo comando – in pieno stile Colonnello Kurtz. Se fino ad ora il film non aveva dato abbastanza indizi su che tipo di quest fosse questa, adesso lo fa: tutto questo non è altro che Edipocalypse Now.
In un frastornante crescendo di follia, Roy deve intrufolarsi nella prossima navicella spaziale attraverso un lago sotterraneo: qui c’è qualcosa che non si vede spesso, ovvero una sequenza sott’acqua in una tuta spaziale completa. Questo momento è davvero un episodio di rinascita in una saga freudiana che viene anche fornita di cordoni ombelicali, così come da immagini di Roy tirato su dei tubi (tagliate con immagini di lui da ragazzino).
Se questi immagini non fossero abbastanza, il film è riempito dalla voce fuoricampo, in cui Roy pondera le sue motivazioni e si crogiola nell’autocontemplazione filiale: “Non so se spero di trovarlo o di liberarmi finalmente di lui”. Liberarsi di lui, probabilmente, dato che tutti non fanno altro che dire a Roy che suo padre “era il migliore di noi” (doveva sentirsi probabilmente come un Julian Lennon intergalattico). La voce fuori campo, presente per tutto il film, è così laboriosamente solenne che non si può non pensare che il solitamente discreto Gray non sia stato costretto. Ad un punto del film, dopo l’incidente violento, Roy mugugna “Vedo quella rabbia in mio padre. Vedo quella rabbia in me”. Non si può non pensare che ci sia qualcosa di solipsistico in quest’uomo: ha appena visto il naso di un uomo venire staccato via, e tutto quello che riesce a dire è “Non voglio essere come mio padre”.
La performance di Tommy Lee Jones è una delle cose più strane del film; le sue battute sono recitate in una cantilena texana noncurante, e non sembra minimamente sorpreso di vedere Roy, come se fosse arrivato ai confini dell’universo solo per controllare che la dentiera del padre calzi bene. Infatti, anche Roy lo saluta con la giusta informalità, in un modo pacatamente rispettoso; a seconda di quanto sia forte la credulità nei confronti del film, si potrà trovare un’assoluta anticlimaticità o una sublime semplicità nel ”Ciao Papà” di Pitt.
Questo è il dramma finale dell’angoscia maschile, sulla scia di tutti questi film hollywoodiani, da cui sembrava non si potesse sfuggire negli anni ’80 e ’90, che parlano di ragazzi che crescono con problemi perché i loro padri si sono persi la loro partita (di baseball, football, calcio o quel che sia). Per quanto riguarda la madre di Roy, veniamo a sapere che è caduta malata per via dell’assenza del marito ma non la intravediamo mai né veniamo a sapere il suo nome. E mentre il figlio ripete i difetti del padre, Eve, la moglie di Roy (Liv Tyler) – vista solo come una memoria fantasmica o una faccia sullo schermo di un telefono – lo rimprovera per la sua assenza. Le occasionali comparse e scomparse nebulose della Tyler rendono chiaro quanto debito Gray ha nei confronti di Solaris – non quello di Tarkovsky, ma la sottovalutata versione di Soderbergh.
Come quel film, anche Ad Astra usa la fantascienza per scopi personali, intimi – e ciò che è peculiare in questo avvincente e a tratti assurdo film è il modo in cui Gray utilizza la regia per equilibrare le richieste di intimità e lo spettacolo d’azione fragoroso. Questa tensione rende Ad Astra molto strano, distante anche nei momenti più coinvolgenti. Ciò è dovuto in parte anche alla colonna sonora di Max Richter, le cui vibrazioni e gli arpeggi hanno un effetto stranamente narcotizzante nei momenti di tensione più alta. Ma il distacco avviene soprattutto perché Pitt si muove attraverso tutto il film con l’indifferenza: raramente più che interrogativamente mesto, il suo Roy McBride è l’estremo opposto dell’eroe d’azione col sigaro in bocca e coperto di sudore. C’è qualcosa di delicato, persino fanciullesco in lui – il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema ha gestito Pitt girandolo in modo che la morbida carnosità dei suoi lineamenti sembri eccezionalmente soffice e vulnerabile. Quella di Pitt è una performance curiosa, minimalista. Il suo McBride si logora solo leggermente, anche nei momenti di crisi più profonda; la risoluzione arriva con la discesa di una singola lacrima virile, preceduta da un’inquadratura ravvicinata di un tremolio nell’angolo dell’occhio. Ma Pitt riesce a farti empatizzare con questo eroe complessato, sensibile ma curiosamente compassato. Tifiamo per lui, non nella speranza che salvi la galassia, ma che il suo battito cardiaco salga ad 81.